UN PRINCIPIO ANCORA ESSENZIALE
NONA DEL TEMPO ORDINARIO
(Dt.11,18.26-28.32; salmo 30;Rm.3,21-25a. 28; Mt.7, 21-27)
Questa breve riflessione si concentra in modo particolare sul testo della prima lettura, il testo della benedizione e maledizione. La lettura rappresenta la conclusione della predicazione (cc. 5-11) che introduce il codice deuteronomico (cc. 12-26), conclusione centrata sull'alternativa benedizione/maledizione: l'obbedienza alla legge di Dio comporta la benedizione e la vita, la disobbedienza la maledizione e la morte. Proporre la legge di Dio equivale a presentare benedizione e maledizione, in quanto mette nella necessità di operare una scelta, di dire un sì o un no; nella massima libertà di ciascuno ovviamente, ma anche nella responsabilità e nella consapevolezza che in tale risposta si gioca il senso della propria vita, del proprio essere persone credenti. Viene qui esposto un principio fondamentale: il bene fa vivere, il male fa morire. Fare il bene fa bene, fare il male fa male. Pur con tutte le distinzioni e le precisazioni che si possono e si debbono fare, questo principio rimane tuttavia essenziale. Certo, S. Paolo ci spiega che, da sola, tale affermazione ci condanna, tutti quanti: "Quelli che si richiamano alle opere della legge stanno sotto la maledizione, poiché sta scritto: 'Maledetto chiunque non rimane fedele a tutte le cose scritte nel libro della legge per praticarle' (Gal 3,10, che cita proprio un testo del Deuteronomio, 27,26). Dobbiamo averlo ben chiaro: è decisivo che Cristo si sia fatto maledizione a nostro vantaggio (Gal 3,13-14). Egli ha vissuto la nostra morte di peccatori, divenendo per noi in tal modo vita; ha preso su di sé la nostra maledizione divenendo per noi benedizione. È evidente che tutto questo risulterebbe privo di senso, se venisse a cadere il principio che il male uccide e il bene vivifica. Senza di esso crollerebbe la stessa economia della redenzione. Questa parola ci richiama costantemente a riscoprirci peccatori perdonati e redenti. Ma il principio è importante anche per un altro motivo, e cioè che anche per l'uomo redento rimane la necessità della scelta tra bene e male, vita e morte. Egli deve appropriarsi della redenzione mediante il proprio sì, ossia mediante la propria fede, speranza e carità. Rimane quindi l'invito pressante del Deuteronomio alla custodia premurosa della Parola nell'anima e nel cuore - essa deve rimanere ben viva e presente nell'orizzonte interiore - e alla vigilanza, che verifica se la volontà di Dio viene davvero vissuta nella concretezza. Non a caso il Vangelo odierno insiste proprio sulla necessità di costruire la casa (leggi la propria esistenza) su ciò che viene da Dio e pertanto che può resistere contro tutto ciò che è distruzione e morte: la roccia della sua Parola. In effetti è con la vita che noi diciamo chi siamo e che tipo di futuro ci stiamo preparando per noi e per gli altri. La prassi è ultimamente decisiva. Si misura qui la distanza del cristianesimo da ogni altra forma di filosofia religiosa, puramente intellettuale, dove l'accento è posto sulla conoscenza, quasi che la semplice apertura di nuove prospettive tutte interiori e "spirituali" sia quanto è sufficiente e richiesto per entrare nella nuova dimensione della salvezza. Molto forte e sempre paradigmatica è in questo senso l'espressione che leggiamo in Esodo 24,7: "Mosè prese il libro del patto e lo lesse in presenza del popolo, il quale disse: 'tutto quello che il Signore ha detto noi lo faremo e lo ascolteremo'". Vero ascolto è l'azione conforme a quanto ascoltato. Si può dire di aver ascoltato solo quando si è messo in pratica. S. Massimo il Confessore dice splendidamente: "La bellezza della sapienza è la conoscenza praticata, ovvero la prassi sapiente" (Ambigua ad Thomam, prologo). Soltanto quando prende carne in una persona, la sapienza risplende e si mostra per quello che davvero essa è.