Seconda lettera di Pietro
Sotto il patronato di "Simone Pietro, servo e apostolo di Gesù Cristo" (1,1) è posta anche un'altra lettera che è, però, per linguaggio, stile e argomento diversa dalla prima e più vicina a quella di Giuda. L'incertezza sulla paternità petrina diretta era già presente nel III secolo. Senza mettere in dubbio la sua canonicità e l'ispirazione divina, possiamo considerare questo scritto come il frutto tardo della tradizione petrina (siamo alla fine del I secolo o all'inizio del II secolo).
Il tono della lettera è quasi quello di un testamento e ha al centro una severa polemica contro i "falsi maestri" o "profeti" che introducono eresie rovinose (2,1). Si pensa che costoro siano i primi gnostici, cioè quei cristiani che presentavano una salvezza legata a una conoscenza sempre più alta e sofisticata, riservata solo agli eletti. Liberi dal peso del corpo, lasciavano che quest'ultimo si abbandonasse al suo istinto, mentre la mente e l'anima si libravano nei cieli della contemplazione. Si configurava, così, anche una forma di libertinismo morale (2,18-22).
In particolare, i falsi maestri deformavano due temi rilevanti della predicazione cristiana. Il primo è quello della parousia o venuta ultima di Cristo a suggello della storia: essi la negavano, convinti che "tutto rimane come al principio della creazione" (3,4) e non ci sia una piena redenzione di tutto l'essere. Il secondo punto debole dei falsi predicatori è l'uso spregiudicato delle sacre Scritture, in particolare delle lettere di Paolo, ormai diffuse nelle comunità cristiane (3,15-16).
Il nostro autore insiste sulla corretta interpretazione della Bibbia, che non può essere soggettiva (1,20-21), e che ha come punto di unità, nella molteplicità delle tappe storiche della rivelazione, la figura di Cristo. La seconda lettera di Pietro è, dunque, una significativa testimonianza della Chiesa delle origini, dei suoi travagli interni, ma anche della sua limpida fedeltà alla parola di Dio e a Cristo.