Se da Dio accettiamo il bene - Il Mondo di Aquila e Priscilla

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LETTURE PATRISTICHE - Tempo Ordinario
Dal «Commento al Libro di Giobbe» di san Gregorio Magno, papa
(Lib. 3, 15-16; PL 75, 606-608)
Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare anche il male?

   Paolo,  osservando in se stesso le ricchezze della sapienza interiore e vedendo  che all'esterno egli era corpo corruttibile, disse: «Abbiamo questo  tesoro in vasi di creta» (2 Cor 4, 7).
   Ecco che nel beato Giobbe  il vaso di creta sentì all'esterno i colpi e le rotture, ma questo  tesoro internamente rimase intatto. Al di fuori si screpolò a causa  delle ferite, ma il tesoro della sapienza all'interno rinasceva  inesauribilmente, tanto da manifestarsi all'esterno in queste sante  espressioni: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo  accettare il male?» (Gb 2, 10).
   Chiama beni i doni di Dio sia  temporali che eterni; mali invece i flagelli presenti, dei quali il  Signore dice per bocca del profeta: «Io sono il Signore e non c'è alcun  altro; fuori di me non c'è dio. Io formo la luce e creo le tenebre,  faccio il bene e provoco la sciagura» (Is 45, 5a. 7).
   «Io formo  la luce e creo le tenebre», perché, mentre con i flagelli si creano  all'esterno le tenebre del dolore, si accende all'interno la luce delle  grandi esperienze spirituali. «Faccio il bene e provoco la sciagura»,  perché alla pace con Dio veniamo riportati quando le cose create bene,  ma non bene desiderate, si mutano, per noi, in flagelli e sofferenze.  Noi entrammo in conflitto con Dio a causa della colpa. È giusto dunque  che torniamo in pace con lui per mezzo dei flagelli. Quando infatti ogni  cosa creata bene si volge per noi in sofferenza, siamo ricondotti sulla  retta via, e l'anima nostra è rigenerata con l'umiltà alla pace del  Creatore.
   Ma nelle parole di Giobbe bisogna osservare  attentamente con quanta abilità di ragionamento egli sappia concludere  contro le affermazioni di sua moglie, dicendo: «Se da Dio accettiamo il  bene, perché non dovremmo accettare il male?».
   È certamente un  grande conforto nelle tribolazioni richiamare alla memoria i benefici  del nostro Creatore, mentre si sopportano le avversità. Né ciò che viene  dal dolore ci può scoraggiare, se subito richiamiamo alla mente il  conforto che i doni ci recano. Per questo è stato scritto: Nel tempo  della prosperità non dimenticare la sventura e nel tempo della sventura  non dimenticare il benessere (cfr. Sir 11, 25).
   Chiunque gode  prosperità, ma nel tempo di essa non ha timore anche dei flagelli, a  causa del benessere cade nell'arroganza. Chi invece, oppresso da  flagelli, non cerca al tempo stesso di consolarsi con la memoria dei  doni ricevuti, è annientato dai sentimenti di sconforto o anche di  disperazione. Bisogna dunque unire assieme le due cose, in modo che  l'una sia sempre sostenuta dall'altra: il ricordo del bene mitigherà la  sofferenza del flagello; la diffidenza circa le gioie terrestri e il  timore del flagello freneranno la gioia del dono.
   L'uomo santo  perciò, per alleviare il suo animo oppresso in mezzo alle ferite, nella  sofferenza dei flagelli consideri la dolcezza dei doni, e dica: «Se da  Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?».

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