Quale coerenza tra fede e vita?
( Os. 6,3-6; sal.49;Rom .4,18-25;Mt. 9,9-13)
10° Domenica del Tempo Ordinario
Con questo tema i cristiani hanno sempre fatto i conti. E c’è chi li ha fatti e li fa con tale rigore, da provare un forte disagio nel partecipare alla vita sacramentale, dal momento che poi non riesce a comportarsi da vero discepolo di Gesù. L’incoerenza tra fede e vita è anche il rimprovero che più di frequente viene mosso ai credenti “ Andate in chiesa, ma poi siete peggio degli altri…”. Non è nemmeno raro sentir dire, da alcuni, che essi vivono con una certa fatica la vita ecclesiale perché, l’incoerenza tra fede e vita, tocca persino i ministri della Chiesa. Oggi la Parola di Dio, per bocca del profeta Osea, ci offre alcuni spunti di riflessione al riguardo. Osea è, per eccellenza, il cantore dell’amore di Dio per il suo popolo, di quel Dio che non sa più che cosa inventarsi per esprimere, in mille modi, la sua tenerezza, la sua benevolenza, la sua provvidenza. Anche nelle infedeltà di Israele, Dio non cessa di amarlo come sua sposa. Ma non è ricambiato da Israele allo stesso modo. E’ un popolo che celebra sì un culto perfetto, ma i fatti sono molto lontani dalle preghiere. Anzi, dice Osea, sembra addirittura che Israele ci giochi su tanta larghezza della misericordia di Dio e sulla sua grande disponibilità a perdonare. (Os.6,3) Il Vangelo di Matteo, chiarirà meglio in che cosa consista la incoerenza di Israele: nella mancanza di misericordia verso il prossimo, nella emarginazione dei poveri e dei peccatori, degli ultimi di questo mondo. Insomma Osea rimprovera ad Israele la separazione tra fede e carità, tra amore di Dio e amore dei fratelli, tra una conoscenza di Dio solo cultuale, e una conoscenza del cuore di Dio, che si rivela con le scelte esistenziali d’amore verso il suo popolo, soprattutto nei momenti più difficili e drammatici. Ecco il messaggio di Osea: il culto, i sacrifici, le preghiere e, quant’altro, vanno benissimo, ma non valgono come gesti fine a se stessi, bensì solo nella misura in cui esprimono la fede. E se da una parte la fede si nutre e si rafforza con la preghiera, la vita sacramentale, la lettura meditata della Parola di Dio, la partecipazione alla vita della Chiesa, soprattutto nel giorno del Signore, il tutto poi si deve esprimere nelle opere, nel servizio, nella carità, come ci ricorda l’apostolo Giacomo: “Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi, ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere è morta in se stessa” ( Gc.2,14-17) Agli scribi e ai farisei sembrava sconveniente che un maestro come Gesù, che parlava dell’amore di Dio e predicava a tanta gente, si sedesse a tavola a mangiare con i pubblicani e i peccatori. ( Mt. 9,11). Da notare che il verbo mangiare e il verbo amare hanno, in ebraico, la stessa radice. Amare è come assimilare il prossimo a sé, sentirlo parte di sé, della propria carne, della propria vita, come noi lo siamo di Dio. Questo, del resto, è il senso anche della Incarnazione di Gesù, questo è il senso della Eucaristia alla quale partecipiamo. In altre parole il credente, per essere coerente, deve possedere la virtù della Misericordia che, meglio di ogni altra, esprime la concretezza della carità di Dio verso di noi, in Cristo. Dice Giovanni: “Fratelli, non amate a parole, ma nei fatti e nella verità”(1Gv.3,18). E’ vero: a volte, noi cristiani, sembriamo più assimilati allo spirito del mondo che a quello del Vangelo. Quando, ad esempio, riteniamo più importanti coloro che contano di più, o per potere o per soldi, e cerchiamo di tutto per farceli amici, mentre escludiamo chi, vivendo ai margini della società, avrebbe più bisogno di accoglienza e di attenzione. Penso agli immigrati, ai carcerati, ai malati psichici, alle ragazze che rimangono incinte e che devono come riprogettare la propria vita, al modo con cui ci rapportiamo con i figli che sembrano essere più lontani dai nostri principi: quanta assenza di misericordia mostriamo, a volte, in tutto questo! Quanta incoerenza evangelica trasuda dai nostri comportamenti che riguardano la legalità, la giustizia, il vivere civile fatto di soverchieria e di poco rispetto per le persone, per non parlare poi di molti aspetti che riguardano la vita nascente e l’uso delle nostre energie sessuali: questioni, circa le quali, molti di noi sono totalmente lontani dallo spirito del Vangelo e, invece, completamente assimilati alla cultura individualistica odierna!. Ben vengano le critiche se ci aiutano ad essere più fedeli a Cristo e se questa fedeltà ci può costare coraggio, sacrificio e isolamento culturale. Anche questa è libertà che non va svenduta per un piatto di lenticchie…Ma bisogna anche rendersi conto che coerenza evangelica non significa perfezione evangelica: quest’ultima sarà solo nella Pasqua eterna. Il mistero dell’amore di Dio, quaggiù, incrocia sempre il mistero del cuore umano. Dio sa di che pasta è fatto il cuore dell’uomo e Dio stesso conosce quanto le nostre capacità di amarLo e di amare i fratelli siano molto lontane dalle sue. Egli sa che, sia noi, sia chi critica la nostra incoerenza, apparteniamo entrambi alla categoria dei malati e dei peccatori, con i quali Egli si siede amichevolmente a tavola. Dio non spezza mai il legame con le persone, dice Osea, nè con il suo popolo, ma continua a chiedersi che cosa possa fare per noi (Os.6,4) E’ un Dio che sempre cerca un varco per parlare al cuore dell’uomo. Quello che non serve, dunque, nella critica, è l’assenza di misericordia o l’incapacità di cogliere i fiori anche in mezzo alle sterpaglie. Soprattutto non serve criticare stando alla finestra senza esporsi di persona. E non dimentichiamo mai quello che dice l’apostolo Giacomo che, in fatto di critica alla incoerenza dei credenti è imbattibile (leggere la sua lettera per credere…):“La misericordia ha sempre la meglio nel giudizio”(Gc.2,13)