Prendersi cura gli uni degli altri
4° Domenica di Pasqua anno C
(At 13,14.43-52; Sal.99; Ap.7,9-14b-17; Gv.10,27-30)
La quarta domenica di Pasqua è chiamata la domenica del Buon Pastore perche, forse più di ogni altra immagine, questa si presenta come la più adeguata per dirci tutta la tenerezza e la cura che Dio ha verso ogni persona. Il termine “pastore”, infatti, fin dall’A,T. è attribuito a Dio come Colui che custodisce e guida il suo popolo soprattutto nei momenti di debolezza e di incertezza (cap.34 del profeta Ezechiele). Gesù , il Vivente, il Risorto, prolunga nel tempo e per sempre tale premura di Dio verso l’umanità. Egli che ha guidato e formato i suoi discepoli alla carità e all’amore fraterno, ha fatto di loro una comunità che ora deve prendersi cura degli agnelli e delle pecorelle sparse in tutto il mondo. Guidandole e nutrendole soprattutto attraverso la predicazione della Parola di Dio, il Pane eucaristico, le opere di carità. Dall’altra parte: ascolto, conoscenza e sequela sono gli atteggiamenti spirituali delle “pecore” nei confronti della voce del pastore; sono questi gli atteggiamenti costitutivi della fede. La vita che il Signore dona continuamente ai credenti, e che essi ricevono grazie a tale ascolto, a tale sequela e a questa conoscenza del Signore, è la comunione con lui. Comunione che è, al tempo stesso, relazione con il Padre, perché “io e il Padre siamo uno” (v. 30). Se Gesù custodisce e non perde nessuno di coloro che il Padre gli ha affidato è perché Egli rimane nella relazione con il Padre e in questa relazione di amore entra e abita ogni credente. Che ascolta la voce di Cri-sto buon pastore. Noi invece, facciamo ciò che Gesù non fa: noi sappiamo perdere i doni ricevuti, sappiamo perdere l’amore, sappiamo perdere l’altro, sappiamo non custodirlo. Perdiamo l’altro perché usciamo dalla relazione con il Signore e ci chiudiamo nell’egoismo. E così mentre perdiamo l’altro, smarriamo anche noi stessi e il senso del nostro vivere che consiste nella relazione con il Padre e con i fratelli. Se perdiamo la prospettiva dell’Amore verso Dio e verso il prossimo, perdiamo la prospettiva stessa della vita. Non sappiamo più perché viviamo e soprattutto non sappiamo più per Chi viviamo. Questa profonda relazione d’amore con Cristo, il metterci alla sua se-quela in maniera docile e abbandonati a Lui, ci permette di coltivare anche verso gli altri un amore genuino: senza dipendenze e senza morbosi attac-camenti. Viviamo infatti delle sottospecie di amori: a volte diciamo di amare una persona, ma di fatto il nostro amore non è pienamente libero, ma è piut-tosto narcisistico, basato sui bisogni del nostro io; l’altra/o allora non viene amato per ciò che è, ma per il ritorno gratificante che ci procura. In altre pa-role, amando l’altro, di fatto amiamo noi stessi. Radicare il nostro amore in Cristo e vivere la comunione con Lui, ci permette di prenderci cura dell’altro, senza usare l’altro a nostro vantaggio. Processo questo che spesso, seppur inconsciamente facciamo. E’ perdendo se stessi, infatti che si rimane nell’amore. Si tratta di rimanere nell’amore del Signore, nella Parola del Signore, in Lui, come il tralcio rimane nella vite e vive della vita che riceve dalla pianta. Potremmo accostare l’espressione giovannea secondo cui nessuno può rapire il credente dalla mano del Padre all’espressione paolina che dice: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? … Né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm.8.35,38-39)). Inoltre, leggendo con attenzione il capitolo decimo di Giovanni si può vedere come il carattere di “pastore” di Gesù con-sista nella relazione con il Padre e con le sue pecore, dunque con Dio e con i credenti. È un titolo relazionale, non funzionale. “Io e il Padre siamo uno” (v. 30); “Io conosco le mie pecore” (v. 27). Quella che noi chiamiamo “pastorale” dovrebbe porre sempre al proprio centro la dimensione relazionale piuttosto che quella funzionale o organizzativa. Al cuore dell’essere pastore nella chie-sa vi è la relazione personale con il Signore, dunque la dimensione spirituale nutrita dalla fede e dalla preghiera, e la relazione con le persone fatta di co-noscenza, amore, ascolto, dedizione, dono della vita. Il pastore è attento al cuore di Dio e al cuore dell’uomo. La vita pastorale non è tale per la vitalità che ne promana o per le attività che la compongono, ma perché pone atten-zione al cuore e alla vita della gente Vi è nei vv. 28-29 come un gioco delle mani per cui la mano di Gesù e la mano di Dio si identificano. La mano è in Giovanni simbolo dell’amore dato e ricevuto: “Il Padre ama il Figlio e ha rimesso tutto nelle sue mani” La mano aperta del Padre per donare tutto al Figlio diviene la mano aperta del Figlio che tutto riceve dal Padre e che il Figlio stesso dona alle sue pecore. Vita pastorale è la consapevolezza che dobbia-mo donare ciò che noi abbiamo ricevuto, con gesti umili di servizio e di ac-coglienza dei fratelli.
La vita pastorale ha come obiettivo l’unità del popolo di Dio,un solo gregge, orientandolo verso Cristo che è la Verità e vivendo la fede in una comunità dei fratelli:”Un solo ovile con un solo pastore”.