COSTITUZIONE DOGMATICA
LUMEN GENTIUM
SULLA CHIESA
CAPITOLO I
IL MISTERO DELLA CHIESA
La Chiesa è sacramento in Cristo
1. Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito
Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura
(cfr. Mc 16,15), illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che
risplende sul volto della Chiesa. E siccome la Chiesa è, in Cristo, in qualche
modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell'intima unione con Dio e
dell'unità di tutto il genere umano, continuando il tema dei precedenti
Concili, intende con maggiore chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al mondo
intero la propria natura e la propria missione universale. Le presenti
condizioni del mondo rendono più urgente questo dovere della Chiesa, affinché
tutti gli uomini, oggi più strettamente congiunti dai vari vincoli sociali,
tecnici e culturali, possano anche conseguire la piena unità in Cristo.
Disegno salvifico universale del Padre
2. L'eterno Padre, con liberissimo e arcano disegno di sapienza e di bontà,
creò l'universo; decise di elevare gli uomini alla partecipazione della sua
vita divina; dopo la loro caduta in Adamo non li abbandonò, ma sempre prestò
loro gli aiuti per salvarsi, in considerazione di Cristo redentore, “ il quale
è l'immagine dell'invisibile Dio, generato prima di ogni creatura ” (Col 1,15).
Tutti infatti quelli che ha scelto, il Padre fino dall'eternità “ li ha
distinti e li ha predestinati a essere conformi all'immagine del Figlio suo,
affinché egli sia il primogenito tra molti fratelli ” (Rm 8,29). I credenti in
Cristo, li ha voluti chiamare a formare la santa Chiesa, la quale, già
annunciata in figure sino dal principio del mondo, mirabilmente preparata nella
storia del popolo d'Israele e nell'antica Alleanza, stabilita infine “ negli
ultimi tempi ”, è stata manifestata dall'effusione dello Spirito e avrà
glorioso compimento alla fine dei secoli. Allora, infatti, come si legge nei
santi Padri, tutti i giusti, a partire da Adamo, “ dal giusto Abele fino
all'ultimo eletto ”, saranno riuniti presso il Padre nella Chiesa universale.
Missione del Figlio
3. È venuto quindi il Figlio, mandato dal Padre, il quale ci ha scelti in lui
prima della fondazione del mondo e ci ha predestinati ad essere adottati in
figli, perché in lui volle accentrare tutte le cose (cfr. Ef 1,4-5 e 10).
Perciò Cristo, per adempiere la volontà del Padre, ha inaugurato in terra il
regno dei cieli e ci ha rivelato il mistero di lui, e con la sua obbedienza ha
operato la redenzione. La Chiesa, ossia il regno di Cristo già presente in
mistero, per la potenza di Dio cresce visibilmente nel mondo. Questo inizio e
questa crescita sono significati dal sangue e dall'acqua, che uscirono dal
costato aperto di Gesù crocifisso (cfr. Gv 19,34), e sono preannunziati dalle
parole del Signore circa la sua morte in croce: “ Ed io, quando sarò levato in
alto da terra, tutti attirerò a me ” (Gv 12,32). Ogni volta che il sacrificio
della croce, col quale Cristo, nostro agnello pasquale, è stato immolato (cfr.
1 Cor 5,7), viene celebrato sull'altare, si rinnova l'opera della nostra
redenzione. E insieme, col sacramento del pane eucaristico, viene rappresentata
ed effettuata l'unità dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo
(cfr. 1 Cor 10,17). Tutti gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo,
che è la luce del mondo; da lui veniamo, per mezzo suo viviamo, a lui siamo
diretti.
Lo Spirito santificatore della Chiesa
4. Compiuta l'opera che il Padre aveva affidato al Figlio sulla terra (cfr. Gv
17,4), il giorno di Pentecoste fu inviato lo Spirito Santo per santificare
continuamente la Chiesa e affinché i credenti avessero così attraverso Cristo
accesso al Padre in un solo Spirito (cfr. Ef 2,18). Questi è lo Spirito che dà
la vita, una sorgente di acqua zampillante fino alla vita eterna (cfr. Gv 4,14;
7,38-39); per mezzo suo il Padre ridà la vita agli uomini, morti per il
peccato, finché un giorno risusciterà in Cristo i loro corpi mortali (cfr. Rm
8,10-11). Lo Spirito dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un
tempio (cfr. 1 Cor 3,16; 6,19) e in essi prega e rende testimonianza della loro
condizione di figli di Dio per adozione (cfr. Gal 4,6; Rm 8,15-16 e 26). Egli
introduce la Chiesa nella pienezza della verità (cfr. Gv 16,13), la unifica
nella comunione e nel ministero, la provvede e dirige con diversi doni
gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti (cfr. Ef 4,11-12; 1 Cor
12,4; Gal 5,22). Con la forza del Vangelo la fa ringiovanire, continuamente la
rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo. Poiché lo Spirito e la
sposa dicono al Signore Gesù: “ Vieni ” (cfr. Ap 22,17).
Così la Chiesa universale si presenta come “ un popolo che deriva la sua unità
dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo ”.
Il regno di Dio
5. Il mistero della santa Chiesa si manifesta nella sua stessa fondazione. Il
Signore Gesù, infatti, diede inizio ad essa predicando la buona novella, cioè
l'avvento del regno di Dio da secoli promesso nella Scrittura: “ Poiché il
tempo è compiuto, e vicino è il regno di Dio ” (Mc 1,15; cfr. Mt 4,17). Questo
regno si manifesta chiaramente agli uomini nelle parole, nelle opere e nella
presenza di Cristo. La parola del Signore è paragonata appunto al seme che
viene seminato nel campo (cfr. Mc 4,14): quelli che lo ascoltano con fede e
appartengono al piccolo gregge di Cristo (cfr. Lc 12,32), hanno accolto il
regno stesso di Dio; poi il seme per virtù propria germoglia e cresce fino al
tempo del raccolto (cfr. Mc 4,26-29). Anche i miracoli di Gesù provano che il
regno è arrivato sulla terra: “ Se con il dito di Dio io scaccio i demoni,
allora è già pervenuto tra voi il regno di Dio ” (Lc 11,20; cfr. Mt 12,28). Ma
innanzi tutto il regno si manifesta nella stessa persona di Cristo, figlio di
Dio e figlio dell'uomo, il quale è venuto “ a servire, e a dare la sua vita in
riscatto per i molti ” (Mc 10,45). Quando poi Gesù, dopo aver sofferto la morte
in croce per gli uomini, risorse, apparve quale Signore e messia e sacerdote in
eterno (cfr. At 2,36; Eb 5,6; 7,17-21), ed effuse sui suoi discepoli lo Spirito
promesso dal Padre (cfr. At 2,33). La Chiesa perciò, fornita dei doni del suo
fondatore e osservando fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e
abnegazione, riceve la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il
regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe e
l'inizio. Intanto, mentre va lentamente crescendo, anela al regno perfetto e
con tutte le sue forze spera e brama di unirsi col suo re nella gloria.
Le immagini della Chiesa
6. Come già nell'Antico Testamento la rivelazione del regno viene spesso
proposta in figure, così anche ora l'intima natura della Chiesa ci si fa
conoscere attraverso immagini varie, desunte sia dalla vita pastorale o
agricola, sia dalla costruzione di edifici o anche dalla famiglia e dagli
sponsali, e che si trovano già abbozzate nei libri dei profeti.
La Chiesa infatti è un ovile, la cui porta unica e necessaria è Cristo (cfr. Gv
10,1-10). È pure un gregge, di cui Dio stesso ha preannunziato che ne sarebbe
il pastore (cfr. Is 40,11; Ez 34,11 ss), e le cui pecore, anche se governate da
pastori umani, sono però incessantemente condotte al pascolo e nutrite dallo
stesso Cristo, il buon Pastore e principe dei pastori (cfr. Gv 10,11; 1 Pt
5,4), il quale ha dato la vita per le pecore (cfr. Gv 10,11-15).
La Chiesa è il podere o campo di Dio (cfr. 1 Cor 3,9). In quel campo cresce
l'antico olivo, la cui santa radice sono stati i patriarchi e nel quale è
avvenuta e avverrà la riconciliazione dei Giudei e delle Genti (cfr. Rm
11,13-26). Essa è stata piantata dal celeste agricoltore come vigna scelta (Mt
21,33-43, par.; cfr. Is 5,1 ss). Cristo è la vera vite, che dà vita e fecondità
ai tralci, cioè a noi, che per mezzo della Chiesa rimaniamo in lui, e senza di
lui nulla possiamo fare (cfr. Gv 15,1-5).
Più spesso ancora la Chiesa è detta edificio di Dio (cfr. 1 Cor 3,9). Il
Signore stesso si paragonò alla pietra che i costruttori hanno rigettata, ma
che è divenuta la pietra angolare (Mt 21,42 par.). Sopra quel fondamento la
Chiesa è costruita dagli apostoli (cfr. 1 Cor 3,11) e da esso riceve stabilità
e coesione. Questo edificio viene chiamato in varie maniere: casa di Dio (cfr.
1 Tm 3,15), nella quale cioè abita la sua famiglia, la dimora di Dio nello
Spirito (cfr. Ef 2,19-22), la dimora di Dio con gli uomini (cfr. Ap 21,3), e
soprattutto tempio santo, il quale, rappresentato dai santuari di pietra, è
l'oggetto della lode dei santi Padri ed è paragonato a giusto titolo dalla
liturgia alla città santa, la nuova Gerusalemme. In essa infatti quali pietre
viventi veniamo a formare su questa terra un tempio spirituale (cfr. 1 Pt 2,5).
E questa città santa Giovanni la contempla mentre, nel momento in cui si
rinnoverà il mondo, scende dal cielo, da presso Dio, “ acconciata come sposa
adornatasi per il suo sposo ” (Ap 21,1s).
La Chiesa, chiamata “ Gerusalemme celeste ” e “ madre nostra ” (Gal 4,26; cfr.
Ap 12,17), viene pure descritta come l'immacolata sposa dell'Agnello immacolato
(cfr. Ap 19,7; 21,2 e 9; 22,17), sposa che Cristo “ ha amato.. . e per essa ha
dato se stesso, al fine di santificarla ” (Ef 5,26), che si è associata con
patto indissolubile ed incessantemente “ nutre e cura ” (Ef 5,29), che dopo
averla purificata, volle a sé congiunta e soggetta nell'amore e nella fedeltà
(cfr. Ef 5,24), e che, infine, ha riempito per sempre di grazie celesti, onde
potessimo capire la carità di Dio e di Cristo verso di noi, carità che sorpassa
ogni conoscenza (cfr. Ef 3,19). Ma mentre la Chiesa compie su questa terra il
suo pellegrinaggio lontana dal Signore (cfr. 2 Cor 5,6), è come un esule, e
cerca e pensa alle cose di lassù, dove Cristo siede alla destra di Dio, dove la
vita della Chiesa è nascosta con Cristo in Dio, fino a che col suo sposo
comparirà rivestita di gloria (cfr. Col 3,1-4).
La Chiesa, corpo mistico di Cristo
7. Il Figlio di Dio, unendo a sé la natura umana e vincendo la morte con la sua
morte e resurrezione, ha redento l'uomo e l'ha trasformato in una nuova
creatura (cfr. Gal 6,15; 2 Cor 5,17). Comunicando infatti il suo Spirito,
costituisce misticamente come suo corpo i suoi fratelli, che raccoglie da tutte
le genti.
In quel corpo la vita di Cristo si diffonde nei credenti che, attraverso i
sacramenti si uniscono in modo arcano e reale a lui sofferente e glorioso. Per
mezzo del battesimo siamo resi conformi a Cristo: “ Infatti noi tutti “ fummo
battezzati in un solo Spirito per costituire un solo corpo ” (1 Cor 12,13). Con
questo sacro rito viene rappresentata e prodotta la nostra unione alla morte e
resurrezione di Cristo: “ Fummo dunque sepolti con lui per l'immersione a
figura della morte ”; ma se, fummo innestati a lui in una morte simile alla
sua, lo saremo anche in una resurrezione simile alla sua ” (Rm 6,4-5).
Partecipando realmente del corpo del Signore nella frazione del pane
eucaristico, siamo elevati alla comunione con lui e tra di noi: “ Perché c'è un
solo pane, noi tutti non formiamo che un solo corpo, partecipando noi tutti di
uno stesso pane” (1 Cor 10,17). Così noi tutti diventiamo membri di quel corpo
(cfr. 1 Cor 12,27), “e siamo membri gli uni degli altri” (Rm 12,5).
Ma come tutte le membra del corpo umano, anche se numerose, non formano che un
solo corpo così i fedeli in Cristo (cfr. 1 Cor 12,12). Anche nella struttura
del corpo mistico di Cristo vige una diversità di membri e di uffici. Uno è lo
Spirito, il quale per l'utilità della Chiesa distribuisce la varietà dei suoi
doni con magnificenza proporzionata alla sua ricchezza e alle necessità dei
ministeri (cfr. 1 Cor 12,1-11). Fra questi doni eccelle quello degli apostoli,
alla cui autorità lo stesso Spirito sottomette anche i carismatici (cfr. 1 Cor
14). Lo Spirito, unificando il corpo con la sua virtù e con l'interna
connessione dei membri, produce e stimola la carità tra i fedeli. E quindi se
un membro soffre, soffrono con esso tutte le altre membra; se un membro è
onorato, ne gioiscono con esso tutte le altre membra (cfr. 1 Cor 12,26).
Capo di questo corpo è Cristo. Egli è l'immagine dell'invisibile Dio, e in lui
tutto è stato creato. Egli è anteriore a tutti, e tutte le cose sussistono in
lui. È il capo del corpo, che è la Chiesa. È il principio, il primo nato di tra
i morti, affinché abbia il primato in tutto (cfr. Col 1,15-18). Con la
grandezza della sua potenza domina sulle cose celesti e terrestri, e con la sua
perfezione e azione sovrana riempie delle ricchezze della sua gloria tutto il
suo corpo (cfr. Ef 1,18-23).
Tutti i membri devono a lui conformarsi, fino a che Cristo non sia in essi
formato (cfr. Gal 4,19). Per ciò siamo collegati ai misteri della sua vita,
resi conformi a lui, morti e resuscitati con lui, finché con lui regneremo
(cfr. Fil 3,21; 2 Tm 2,11; Ef 2,6). Ancora peregrinanti in terra, mentre
seguiamo le sue orme nella tribolazione e nella persecuzione, veniamo associati
alle sue sofferenze, come il corpo al capo e soffriamo con lui per essere con
lui glorificati (cfr. Rm 8,17). Da lui “ tutto il corpo ben fornito e ben
compaginato, per mezzo di giunture e di legamenti, riceve l'aumento voluto da
Dio ” (Col 2,19). Nel suo corpo, che è la Chiesa, egli continuamente dispensa i
doni dei ministeri, con i quali, per virtù sua, ci aiutiamo vicendevolmente a
salvarci e, operando nella carità conforme a verità, andiamo in ogni modo
crescendo verso colui, che è il nostro capo (cfr. Ef 5,11-16 gr.).
Perché poi ci rinnovassimo continuamente in lui (cfr. Ef 4,23), ci ha resi
partecipi del suo Spirito, il quale, unico e identico nel capo e nelle membra,
dà a tutto il corpo vita, unità e moto, così che i santi Padri poterono
paragonare la sua funzione con quella che il principio vitale, cioè l'anima,
esercita nel corpo umano. Cristo inoltre ama la Chiesa come sua sposa,
facendosi modello del marito che ama la moglie come il proprio corpo (cfr. Ef
5,25-28); la Chiesa poi è soggetta al suo capo. E poiché “in lui abita
congiunta all'umanità la pienezza della divinità ” (Col 2,9), egli riempie dei suoi
doni la Chiesa la quale è il suo corpo e la sua pienezza (cfr. Ef 1,22-23),
affinché essa sia protesa e pervenga alla pienezza totale di Dio (cfr. Ef
3,19).
La Chiesa, realtà visibile e spirituale
8. Cristo, unico mediatore, ha costituito sulla terra e incessantemente
sostenta la sua Chiesa santa, comunità di fede, di speranza e di carità, quale
organismo visibile, attraverso il quale diffonde per tutti la verità e la
grazia. Ma la società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di
Cristo, l'assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la
Chiesa arricchita di beni celesti, non si devono considerare come due cose
diverse; esse formano piuttosto una sola complessa realtà risultante di un
duplice elemento, umano e divino. Per una analogia che non è senza valore,
quindi, è paragonata al mistero del Verbo incarnato. Infatti, come la natura
assunta serve al Verbo divino da vivo organo di salvezza, a lui
indissolubilmente unito, così in modo non dissimile l'organismo sociale della
Chiesa serve allo Spirito di Cristo che la vivifica, per la crescita del corpo
(cfr. Ef 4,16).
Questa è l'unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo professiamo una, santa,
cattolica e apostolica e che il Salvatore nostro, dopo la sua resurrezione,
diede da pascere a Pietro (cfr. Gv 21,17), affidandone a lui e agli altri
apostoli la diffusione e la guida (cfr. Mt 28,18ss), e costituì per sempre
colonna e sostegno della verità (cfr. 1 Tm 3,15). Questa Chiesa, in questo
mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella Chiesa cattolica,
governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, ancorché
al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e
di verità, che, appartenendo propriamente per dono di Dio alla Chiesa di
Cristo, spingono verso l'unità cattolica. Come Cristo ha compiuto la redenzione
attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa e chiamata a
prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù
Cristo “ che era di condizione divina... spogliò se stesso, prendendo la
condizione di schiavo ” (Fil 2,6-7) e per noi “ da ricco che era si fece povero
” (2 Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione
abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria terrena,
bensì per diffondere, anche col suo esempio, l'umiltà e l'abnegazione. Come
Cristo infatti è stato inviato dal Padre “ ad annunciare la buona novella ai
poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito ” (Lc 4,18), “ a cercare e
salvare ciò che era perduto” (Lc 19,10), così pure la Chiesa circonda
d'affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce
nei poveri e nei sofferenti l'immagine del suo fondatore, povero e sofferente,
si fa premura di sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire il Cristo.
Ma mentre Cristo, “ santo, innocente, immacolato ” (Eb 7,26), non conobbe il
peccato (cfr. 2 Cor 5,21) e venne solo allo scopo di espiare i peccati del
popolo (cfr. Eb 2,17), la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è
perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente
per il cammino della penitenza e del rinnovamento. La Chiesa “ prosegue il suo
pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio ”,
annunziando la passione e la morte del Signore fino a che egli venga (cfr. 1
Cor 11,26). Dalla virtù del Signore risuscitato trae la forza per vincere con
pazienza e amore le afflizioni e le difficoltà, che le vengono sia dal di
dentro che dal di fuori, e per svelare in mezzo al mondo, con fedeltà, anche se
non perfettamente, il mistero di lui, fino a che alla fine dei tempi esso sarà
manifestato nella pienezza della luce.
CAPITOLO II
IL POPOLO DI DIO
Nuova alleanza e nuovo popolo
9. In ogni tempo e in ogni nazione è accetto a Dio chiunque lo teme e opera la
giustizia (cfr. At 10,35). Tuttavia Dio volle santificare e salvare gli uomini
non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro
un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità.
Scelse quindi per sé il popolo israelita, stabilì con lui un'alleanza e lo
formò lentamente, manifestando nella sua storia se stesso e i suoi disegni e
santificandolo per sé. Tutto questo però avvenne in preparazione e figura di
quella nuova e perfetta alleanza da farsi in Cristo, e di quella più piena
rivelazione che doveva essere attuata per mezzo del Verbo stesso di Dio fattosi
uomo. “ Ecco venir giorni (parola del Signore) nei quali io stringerò con
Israele e con Giuda un patto nuovo... Porrò la mia legge nei loro cuori e nelle
loro menti l'imprimerò; essi mi avranno per Dio ed io li avrò per il mio
popolo... Tutti essi, piccoli e grandi, mi riconosceranno, dice il Signore ”
(Ger 31,31-34). Cristo istituì questo nuovo patto cioè la nuova alleanza nel
suo sangue (cfr. 1 Cor 11,25), chiamando la folla dai Giudei e dalle nazioni,
perché si fondesse in unità non secondo la carne, ma nello Spirito, e
costituisse il nuovo popolo di Dio. Infatti i credenti in Cristo, essendo stati
rigenerati non di seme corruttibile, ma di uno incorruttibile, che è la parola
del Dio vivo (cfr. 1 Pt 1,23), non dalla carne ma dall'acqua e dallo Spirito
Santo (cfr. Gv 3,5-6), costituiscono “ una stirpe eletta, un sacerdozio regale,
una nazione santa, un popolo tratto in salvo... Quello che un tempo non era
neppure popolo, ora invece è popolo di Dio ” (1 Pt 2,9-10).
Questo popolo messianico ha per capo Cristo “ dato a morte per i nostri peccati
e risuscitato per la nostra giustificazione ” (Rm 4,25), e che ora, dopo
essersi acquistato un nome che è al di sopra di ogni altro nome, regna glorioso
in cielo. Ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore
dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio. Ha per legge il nuovo
precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati (cfr. Gv 13,34). E
finalmente, ha per fine il regno di Dio, incominciato in terra dallo stesso
Dio, e che deve essere ulteriormente dilatato, finché alla fine dei secoli sia
da lui portato a compimento, quando comparirà Cristo, vita nostra (cfr. Col
3,4) e “ anche le stesse creature saranno liberate dalla schiavitù della
corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio ” (Rm 8,21).
Perciò il popolo messianico, pur non comprendendo effettivamente l'universalità
degli uomini e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce tuttavia
per tutta l'umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza.
Costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità, è pure
da lui assunto ad essere strumento della redenzione di tutti e, quale luce del
mondo e sale della terra (cfr. Mt 5,13-16), è inviato a tutto il mondo.
Come già l'Israele secondo la carne peregrinante nel deserto viene chiamato
Chiesa di Dio (Dt 23,1 ss.), così il nuovo Israele dell'era presente, che
cammina alla ricerca della città futura e permanente (cfr. Eb 13,14), si chiama
pure Chiesa di Cristo (cfr. Mt 16,18); è il Cristo infatti che l'ha acquistata
col suo sangue (cfr. At 20,28), riempita del suo Spirito e fornita di mezzi
adatti per l'unione visibile e sociale. Dio ha convocato tutti coloro che
guardano con fede a Gesù, autore della salvezza e principio di unità e di pace,
e ne ha costituito la Chiesa, perché sia agli occhi di tutti e di ciascuno, il
sacramento visibile di questa unità salvifica. Dovendosi essa estendere a tutta
la terra, entra nella storia degli uomini, benché allo stesso tempo trascenda i
tempi e i confini dei popoli, e nel suo cammino attraverso le tentazioni e le tribolazioni
è sostenuta dalla forza della grazia di Dio che le è stata promessa dal
Signore, affinché per la umana debolezza non venga meno alla perfetta fedeltà
ma permanga degna sposa del suo Signore, e non cessi, con l'aiuto dello Spirito
Santo, di rinnovare se stessa, finché attraverso la croce giunga alla luce che
non conosce tramonto.
Il sacerdozio comune dei fedeli
10. Cristo Signore, pontefice assunto di mezzo agli uomini (cfr. Eb 5,1-5),
fece del nuovo popolo “ un regno e sacerdoti per il Dio e il Padre suo ” (Ap
1,6; cfr. 5,9-10). Infatti per la rigenerazione e l'unzione dello Spirito Santo
i battezzati vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un
sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le attività del cristiano,
spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di colui, che dalle tenebre li
chiamò all'ammirabile sua luce (cfr. 1 Pt 2,4-10). Tutti quindi i discepoli di
Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio (cfr. At 2,42-47),
offrano se stessi come vittima viva, santa, gradevole a Dio (cfr. Rm 12,1),
rendano dovunque testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendano ragione
della speranza che è in essi di una vita eterna (cfr. 1 Pt 3,15) Il sacerdozio
comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque
differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l'uno
all'altro, poiché l'uno e l'altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano
dell'unico sacerdozio di Cristo. Il sacerdote ministeriale, con la potestà
sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il
sacrificio eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il
popolo; i fedeli, in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono all'offerta
dell'eucaristia, ed esercitano il loro sacerdozio col ricevere i sacramenti,
con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa,
con l'abnegazione e la carità operosa.
Il sacerdozio comune esercitato nei sacramenti
11. Il carattere sacro e organico della comunità sacerdotale viene attuato per
mezzo dei sacramenti e delle virtù. I fedeli, incorporati nella Chiesa col
battesimo, sono destinati al culto della religione cristiana dal carattere
sacramentale; rigenerati quali figli di Dio, sono tenuti a professare pubblicamente
la fede ricevuta da Dio mediante la Chiesa. Col sacramento della confermazione
vengono vincolati più perfettamente alla Chiesa, sono arricchiti di una
speciale forza dallo Spirito Santo e in questo modo sono più strettamente
obbligati a diffondere e a difendere la fede con la parola e con l'opera, come
veri testimoni di Cristo. Partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e apice
di tutta la vita cristiana, offrono a Dio la vittima divina e se stessi con
essa così tutti, sia con l'offerta che con la santa comunione, compiono la
propria parte nell'azione liturgica, non però in maniera indifferenziata, bensì
ciascuno a modo suo. Cibandosi poi del corpo di Cristo nella santa comunione,
mostrano concretamente la unità del popolo di Dio, che da questo augustissimo
sacramento è adeguatamente espressa e mirabilmente effettuata.
Quelli che si accostano al sacramento della penitenza, ricevono dalla
misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a lui; allo stesso tempo si
riconciliano con la Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato e
che coopera alla loro conversione con la carità, l'esempio e la preghiera. Con
la sacra unzione degli infermi e la preghiera dei sacerdoti, tutta la Chiesa
raccomanda gli ammalati al Signore sofferente e glorificato, perché
alleggerisca le loro pene e li salvi (cfr. Gc 5,14-16), anzi li esorta a unirsi
spontaneamente alla passione e morte di Cristo (cfr. Rm 8,17; Col 1,24), per
contribuire così al bene del popolo di Dio. Inoltre, quelli tra i fedeli che
vengono insigniti dell'ordine sacro sono posti in nome di Cristo a pascere la
Chiesa colla parola e la grazia di Dio. E infine i coniugi cristiani, in virtù
del sacramento del matrimonio, col quale significano e partecipano il mistero
di unità e di fecondo amore che intercorre tra Cristo e la Chiesa (cfr. Ef
5,32), si aiutano a vicenda per raggiungere la santità nella vita coniugale;
accettando ed educando la prole essi hanno così, nel loro stato di vita e nella
loro funzione, il proprio dono in mezzo al popolo di Dio (cfr. 1 Cor 7,7). Da
questa missione, infatti, procede la famiglia, nella quale nascono i nuovi
cittadini della società umana, i quali per la grazia dello Spirito Santo
diventano col battesimo figli di Dio e perpetuano attraverso i secoli il suo
popolo. In questa che si potrebbe chiamare Chiesa domestica, i genitori devono
essere per i loro figli i primi maestri della fede e secondare la vocazione
propria di ognuno, quella sacra in modo speciale.
Muniti di salutari mezzi di una tale abbondanza e d'una tale grandezza, tutti i
fedeli d'ogni stato e condizione sono chiamati dal Signore, ognuno per la sua
via, a una santità, la cui perfezione è quella stessa del Padre celeste.
Il senso della fede e i carismi nel popolo di Dio
12. Il popolo santo di Dio partecipa pure dell'ufficio profetico di Cristo col
diffondere dovunque la viva testimonianza di lui, soprattutto per mezzo di una
vita di fede e di carità, e coll'offrire a Dio un sacrificio di lode, cioè
frutto di labbra acclamanti al nome suo (cfr. Eb 13,15). La totalità dei
fedeli, avendo l'unzione che viene dal Santo, (cfr. 1 Gv 2,20 e 27), non può
sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso
soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando “ dai vescovi fino agli
ultimi fedeli laici ” mostra l'universale suo consenso in cose di fede e di
morale. E invero, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo
Spirito di verità, e sotto la guida del sacro magistero, il quale permette, se
gli si obbedisce fedelmente, di ricevere non più una parola umana, ma veramente
la parola di Dio (cfr. 1 Ts 2,13), il popolo di Dio aderisce indefettibilmente
alla fede trasmessa ai santi una volta per tutte (cfr. Gdc 3), con retto
giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l'applica nella vita.
Inoltre lo Spirito Santo non si limita a santificare e a guidare il popolo di
Dio per mezzo dei sacramenti e dei ministeri, e ad adornarlo di virtù, ma “
distribuendo a ciascuno i propri doni come piace a lui ” (1 Cor 12,11),
dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali, con le quali li
rende adatti e pronti ad assumersi vari incarichi e uffici utili al
rinnovamento e alla maggiore espansione della Chiesa secondo quelle parole: “ A
ciascuno la manifestazione dello Spirito è data perché torni a comune vantaggio
” (1 Cor 12,7). E questi carismi, dai più straordinari a quelli più semplici e
più largamente diffusi, siccome sono soprattutto adatti alle necessità della
Chiesa e destinati a rispondervi, vanno accolti con gratitudine e consolazione.
Non bisogna però chiedere imprudentemente i doni straordinari, né sperare da
essi con presunzione i frutti del lavoro apostolico. Il giudizio sulla loro
genuinità e sul loro uso ordinato appartiene a coloro che detengono l'autorità
nella Chiesa; ad essi spetta soprattutto di non estinguere lo Spirito, ma di
esaminare tutto e ritenere ciò che è buono (cfr. 1 Ts 5,12 e 19-21).
L'unico popolo di Dio è universale
13. Tutti gli uomini sono chiamati a formare il popolo di Dio. Perciò questo
popolo, pur restando uno e unico, si deve estendere a tutto il mondo e a tutti
i secoli, affinché si adempia l'intenzione della volontà di Dio, il quale in
principio creò la natura umana una e volle infine radunare insieme i suoi figli
dispersi (cfr. Gv 11,52). A questo scopo Dio mandò il Figlio suo, al quale
conferì il dominio di tutte le cose (cfr. Eb 1,2), perché fosse maestro, re e
sacerdote di tutti, capo del nuovo e universale popolo dei figli di Dio. Per
questo infine Dio mandò lo Spirito del Figlio suo, Signore e vivificatore, il
quale per tutta la Chiesa e per tutti e singoli i credenti è principio di
associazione e di unità, nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione
fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere (cfr. At 2,42).
In tutte quindi le nazioni della terra è radicato un solo popolo di Dio, poiché
di mezzo a tutte le stirpi egli prende i cittadini del suo regno non terreno ma
celeste. E infatti tutti i fedeli sparsi per il mondo sono in comunione con gli
altri nello Spirito Santo, e così “ chi sta in Roma sa che gli Indi sono sue
membra ”. Siccome dunque il regno di Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv
18,36), la Chiesa, cioè il popolo di Dio, introducendo questo regno nulla
sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e
accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò
che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida ed eleva.
Essa si ricorda infatti di dover far opera di raccolta con quel Re, al quale
sono state date in eredità le genti (cfr. Sal 2,8), e nella cui città queste
portano i loro doni e offerte (cfr. Sal 71 (72),10; Is 60,4-7). Questo
carattere di universalità, che adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello
stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste
tende a ricapitolare tutta l'umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo,
nell'unità dello Spirito di lui.
In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle
altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si
accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la
pienezza nell'unità. Ne consegue che il popolo di Dio non solo si raccoglie da
diversi popoli, ma nel suo stesso interno si compone di funzioni diverse.
Poiché fra i suoi membri c'è diversità sia per ufficio, essendo alcuni
impegnati nel sacro ministero per il bene dei loro fratelli, sia per la
condizione e modo di vita, dato che molti nello stato religioso, tendendo alla
santità per una via più stretta, sono un esempio stimolante per i loro
fratelli. Così pure esistono legittimamente in seno alla comunione della
Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro
il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione
universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò
che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma piuttosto la serva. E
infine ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa, vincoli di intima comunione
circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e le risorse materiali. I
membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a condividere i beni e anche
alle singole Chiese si applicano le parole dell'Apostolo: “ Da bravi
amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno di voi metta a servizio
degli altri il dono che ha ricevuto” (1 Pt 4,10).
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa cattolica unità del popolo di
Dio, che prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in vario modo
appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in
Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia di Dio
chiama alla salvezza.
I fedeli cattolici
14. Il santo Concilio si rivolge quindi prima di tutto ai fedeli cattolici.
Esso, basandosi sulla sacra Scrittura e sulla tradizione, insegna che questa
Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza. Solo il Cristo, infatti,
presente in mezzo a noi nel suo corpo che è la Chiesa, è il mediatore e la via
della salvezza; ora egli stesso, inculcando espressamente la necessità della
fede e del battesimo (cfr. Gv 3,5), ha nello stesso tempo confermato la
necessità della Chiesa, nella quale gli uomini entrano per il battesimo come
per una porta. Perciò non possono salvarsi quegli uomini, i quali, pur non
ignorando che la Chiesa cattolica è stata fondata da Dio per mezzo di Gesù
Cristo come necessaria, non vorranno entrare in essa o in essa perseverare.
Sono pienamente incorporati nella società della Chiesa quelli che, avendo lo
Spirito di Cristo, accettano integralmente la sua organizzazione e tutti i
mezzi di salvezza in essa istituiti, e che inoltre, grazie ai legami costituiti
dalla professione di fede, dai sacramenti, dal governo ecclesiastico e dalla
comunione, sono uniti, nell'assemblea visibile della Chiesa, con il Cristo che
la dirige mediante il sommo Pontefice e i vescovi. Non si salva, però, anche se
incorporato alla Chiesa, colui che, non perseverando nella carità, rimane sì in
seno alla Chiesa col “corpo”, ma non col “cuore”. Si ricordino bene tutti i
figli della Chiesa che la loro privilegiata condizione non va ascritta ai loro
meriti, ma ad una speciale grazia di Cristo; per cui, se non vi corrispondono
col pensiero, con le parole e con le opere, non solo non si salveranno, ma anzi
saranno più severamente giudicati.
I catecumeni che per impulso dello Spirito Santo desiderano ed espressamente
vogliono essere incorporati alla Chiesa, vengono ad essa congiunti da questo
stesso desiderio, e la madre Chiesa li avvolge come già suoi con il proprio
amore e con le proprie cure.
I cristiani non cattolici e la Chiesa
15. La Chiesa sa di essere per più ragioni congiunta con coloro che, essendo
battezzati, sono insigniti del nome cristiano, ma non professano integralmente
la fede o non conservano l'unità di comunione sotto il successore di Pietro. Ci
sono infatti molti che hanno in onore la sacra Scrittura come norma di fede e
di vita, manifestano un sincero zelo religioso, credono amorosamente in Dio
Padre onnipotente e in Cristo, figlio di Dio e salvatore, sono segnati dal
battesimo, col quale vengono congiunti con Cristo, anzi riconoscono e accettano
nelle proprie Chiese o comunità ecclesiali anche altri sacramenti. Molti fra
loro hanno anche l'episcopato, celebrano la sacra eucaristia e coltivano la
devozione alla vergine Madre di Dio. A questo si aggiunge la comunione di
preghiere e di altri benefici spirituali; anzi, una certa vera unione nello
Spirito Santo, poiché anche in loro egli opera con la sua virtù santificante
per mezzo di doni e grazie e ha dato ad alcuni la forza di giungere fino allo
spargimento del sangue. Così lo Spirito suscita in tutti i discepoli di Cristo
desiderio e attività, affinché tutti, nel modo da Cristo stabilito,
pacificamente si uniscano in un solo gregge sotto un solo Pastore. E per
ottenere questo la madre Chiesa non cessa di pregare, sperare e operare,
esortando i figli a purificarsi e rinnovarsi perché l'immagine di Cristo
risplenda più chiara sul volto della Chiesa.
I non cristiani e la Chiesa
16. Infine, quanto a quelli che non hanno ancora ricevuto il Vangelo, anch'essi
in vari modi sono ordinati al popolo di Dio. In primo luogo quel popolo al
quale furono-dati i testamenti e le promesse e dal quale Cristo è nato secondo
la carne (cfr. Rm 9,4-5), popolo molto amato in ragione della elezione, a causa
dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (cfr. Rm
11,28-29). Ma il disegno di salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il
Creatore, e tra questi in particolare i musulmani, i quali, professando di
avere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso che
giudicherà gli uomini nel giorno finale. Dio non e neppure lontano dagli altri
che cercano il Dio ignoto nelle ombre e sotto le immagini, poiché egli dà a
tutti la vita e il respiro e ogni cosa (cfr At 1,7,25-26), e come Salvatore
vuole che tutti gli uomini si salvino (cfr. 1 Tm 2,4). Infatti, quelli che
senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa ma che tuttavia
cercano sinceramente Dio e coll'aiuto della grazia si sforzano di compiere con
le opere la volontà di lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza,
possono conseguire la salvezza eterna. Né la divina Provvidenza nega gli aiuti
necessari alla salvezza a coloro che non sono ancora arrivati alla chiara
cognizione e riconoscimento di Dio, ma si sforzano, non senza la grazia divina,
di condurre una vita retta. Poiché tutto ciò che di buono e di vero si trova in
loro è ritenuto dalla Chiesa come una preparazione ad accogliere il Vangelo e
come dato da colui che illumina ogni uomo, affinché abbia finalmente la vita.
Ma molto spesso gli uomini, ingannati dal maligno, hanno errato nei loro
ragionamenti e hanno scambiato la verità divina con la menzogna, servendo la
creatura piuttosto che il Creatore (cfr. Rm 1,21 e 25), oppure, vivendo e
morendo senza Dio in questo mondo, sono esposti alla disperazione finale.
Perciò la Chiesa per promuovere la gloria di Dio e la salute di tutti costoro,
memore del comando del Signore che dice: “ Predicate il Vangelo ad ogni
creatura” (Mc 16,15), mette ogni cura nell'incoraggiare e sostenere le
missioni.
Carattere missionario della Chiesa
17. Come infatti il Figlio è stato mandato dal Padre, così ha mandato egli
stesso gli apostoli (cfr. Gv 20,21) dicendo: “Andate dunque e ammaestrate tutte
le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo,
insegnando loro ad osservare tutto quanto vi ho comandato. Ed ecco, io sono con
voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo ” (Mt 28,18-20). E questo solenne
comando di Cristo di annunziare la verità salvifica, la Chiesa l'ha ricevuto
dagli apostoli per proseguirne l'adempimento sino all'ultimo confine della
terra (cfr. At 1,8). Essa fa quindi sue le parole dell'apostolo: “ Guai... a me
se non predicassi! ” (l Cor 9,16) e continua a mandare araldi del Vangelo, fino
a che le nuove Chiese siano pienamente costituite e continuino a loro volta
l'opera di evangelizzazione. È spinta infatti dallo Spirito Santo a cooperare
perché sia compiuto il piano di Dio, il quale ha costituito Cristo principio
della salvezza per il mondo intero. Predicando il Vangelo, la Chiesa dispone
coloro che l'ascoltano a credere e a professare la fede, li dispone al
battesimo, li toglie dalla schiavitù dell'errore e li incorpora a Cristo per
crescere in lui mediante la carità finché sia raggiunta la pienezza. Procura
poi che quanto di buono si trova seminato nel cuore e nella mente degli uomini
o nei riti e culture proprie dei popoli, non solo non vada perduto, ma sia
purificato, elevato e perfezionato a gloria di Dio, confusione del demonio e
felicità dell'uomo. Ad ogni discepolo di Cristo incombe il dovere di
disseminare, per quanto gli è possibile, la fede. Ma se ognuno può conferire il
battesimo ai credenti, è tuttavia ufficio del sacerdote di completare
l'edificazione del corpo col sacrificio eucaristico, adempiendo le parole dette
da Dio per mezzo del profeta: “ Da dove sorge il sole fin dove tramonta, grande
è il mio Nome tra le genti e in ogni luogo si offre al mio Nome un sacrificio e
un'offerta pura ”. Così la Chiesa unisce preghiera e lavoro, affinché il mondo
intero in tutto il suo essere sia trasformato in popolo di Dio, corpo mistico
di Cristo e tempio dello Spirito Santo, e in Cristo, centro di tutte le cose,
sia reso ogni onore e gloria al Creatore e Padre dell'universo.
CAPITOLO III
COSTITUZIONE GERARCHICA DELLA CHIESA
E IN PARTICOLARE DELL'EPISCOPATO
Proemio
18. Cristo Signore, per pascere e sempre più accrescere il popolo di Dio, ha
stabilito nella sua Chiesa vari ministeri, che tendono al bene di tutto il
corpo. I ministri infatti che sono rivestiti di sacra potestà, servono i loro
fratelli, perché tutti coloro che appartengono al popolo di Dio, e perciò hanno
una vera dignità cristiana, tendano liberamente e ordinatamente allo stesso
fine e arrivino alla salvezza. Questo santo Sinodo, sull'esempio del Concilio
Vaticano primo, insegna e dichiara che Gesù Cristo, pastore eterno, ha
edificato la santa Chiesa e ha mandato gli apostoli, come egli stesso era stato
mandato dal Padre (cfr. Gv 20,21), e ha voluto che i loro successori, cioè i
vescovi, fossero nella sua Chiesa pastori fino alla fine dei secoli. Affinché
poi lo stesso episcopato fosse uno e indiviso, prepose agli altri apostoli il
beato Pietro e in lui stabilì il principio e il fondamento perpetuo e visibile
dell'unità di fede e di comunione. Questa dottrina della istituzione, della
perpetuità, del valore e della natura del sacro primato del romano Pontefice e
del suo infallibile magistero, il santo Concilio la propone di nuovo a tutti i
fedeli come oggetto certo di fede. Di più proseguendo nel disegno incominciato,
ha stabilito di enunciare ed esplicitare la dottrina sui vescovi, successori
degli apostoli, i quali col successore di Pietro, vicario di Cristo e capo
visibile di tutta la Chiesa, reggono la casa del Dio vivente.
L'istituzione dei dodici
19. Il Signore Gesù, dopo aver pregato il Padre, chiamò a sé quelli che egli
volle, e ne costituì dodici perché stessero con lui e per mandarli a predicare
il regno di Dio (cfr. Mc 3,13-19; Mt 10,1-42); ne fece i suoi apostoli (cfr. Lc
6,13) dando loro la forma di collegio, cioè di un gruppo stabile, del quale
mise a capo Pietro, scelto di mezzo a loro (cfr. Gv 21 15-17). Li mandò prima
ai figli d'Israele e poi a tutte le genti (cfr. Rm 1,16) affinché, partecipi
del suo potere, rendessero tutti i popoli suoi discepoli, li santificassero e
governassero (cfr. Mt 28,16-20; Mc 16,15; Lc 24,45-48), diffondendo così la
Chiesa e, sotto la guida del Signore, ne fossero i ministri e i pastori, tutti
i giorni sino alla fine del mondo (cfr. Mt 28,20). In questa missione furono
pienamente confermati il giorno di Pentecoste (cfr. At 2,1-36) secondo la
promessa del Signore: “ Riceverete una forza, quella dello Spirito Santo che
discenderà su di voi, e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e
la Samaria, e sino alle estremità della terra ” (At 1,8). Gli apostoli, quindi,
predicando dovunque il Vangelo (cfr. Mc 16,20), accolto dagli uditori grazie all'azione
dello Spirito Santo, radunano la Chiesa universale che il Signore ha fondato su
di essi e edificato sul beato Pietro, loro capo, con Gesù Cristo stesso come
pietra maestra angolare (cfr. Ap 21,14; Mt 16,18; Ef 2,20).
I vescovi, successori degli apostoli
20. La missione divina affidata da Cristo agli apostoli durerà fino alla fine
dei secoli (cfr. Mt 28,20), poiché il Vangelo che essi devono predicare è per
la Chiesa il principio di tutta la sua vita in ogni tempo. Per questo gli
apostoli, in questa società gerarchicamente ordinata, ebbero cura di istituire
dei successori.
Infatti, non solo ebbero vari collaboratori nel ministero ma perché la missione
loro affidata venisse continuata dopo la loro morte, affidarono, quasi per
testamento, ai loro immediati cooperatori l'ufficio di completare e consolidare
l'opera da essi incominciata raccomandando loro di attendere a tutto il gregge
nel quale lo Spirito Santo li aveva posti a pascere la Chiesa di Dio (cfr. At
20,28). Perciò si scelsero di questi uomini e in seguito diedero disposizione
che dopo la loro morte altri uomini subentrassero al loro posto Fra i vari
ministeri che fin dai primi tempi si esercitano nella Chiesa, secondo la
testimonianza della tradizione, tiene il primo posto l'ufficio di quelli che
costituiti nell'episcopato, per successione che decorre ininterrotta fin dalle
origini sono i sacramenti attraverso i quali si trasmette il seme apostolico.
Così, come attesta S. Ireneo, per mezzo di coloro che gli apostoli costituirono
vescovi e dei loro successori fino a noi, la tradizione apostolica in tutto il
mondo è manifestata e custodita .
I vescovi dunque hanno ricevuto il ministero della comunità per esercitarlo con
i loro collaboratori, sacerdoti e diaconi. Presiedono in luogo di Dio al gregge
di cui sono pastori quali maestri di dottrina, sacerdoti del sacro culto,
ministri del governo della Chiesa. Come quindi è permanente l'ufficio dal
Signore concesso singolarmente a Pietro, il primo degli apostoli, e da
trasmettersi ai suoi successori, cosi è permanente l'ufficio degli apostoli di
pascere la Chiesa, da esercitarsi in perpetuo dal sacro ordine dei vescovi.
Perciò il sacro Concilio insegna che i vescovi per divina istituzione sono
succeduti al posto degli apostoli quali pastori della Chiesa, e che chi li
ascolta, ascolta Cristo, chi li disprezza, disprezza Cristo e colui che ha
mandato Cristo (cfr. Lc 10,16).
Sacramentalità dell'episcopato
21. Nella persona quindi dei vescovi, assistiti dai sacerdoti, è presente in
mezzo ai credenti il Signore Gesù Cristo, pontefice sommo. Pur sedendo infatti
alla destra di Dio Padre, egli non cessa di essere presente alla comunità dei
suoi pontefici in primo luogo, per mezzo dell'eccelso loro ministero, predica
la parola di Dio a tutte le genti e continuamente amministra ai credenti i
sacramenti della fede; per mezzo del loro ufficio paterno (cfr. 1 Cor 4,15)
integra nuove membra al suo corpo con la rigenerazione soprannaturale; e
infine, con la loro sapienza e prudenza, dirige e ordina il popolo del Nuovo
Testamento nella sua peregrinazione verso l'eterna beatitudine. Questi pastori,
scelti a pascere il gregge del Signore, sono ministri di Cristo e dispensatori
dei misteri di Dio (cfr. 1 Cor 4,1). Ad essi è stata affidata la testimonianza
al Vangelo della grazia di Dio (cfr. Rm 15,16; At 20,24) e il glorioso
ministero dello Spirito e della giustizia (cfr. 2 Cor 3,8-9).
Per compiere cosi grandi uffici, gli apostoli sono stati arricchiti da Cristo
con una effusione speciale dello Spirito Santo disceso su loro (cfr. At 1,8;
2,4; Gv 20,22-23), ed essi stessi con la imposizione delle mani diedero questo
dono spirituale ai loro collaboratori (cfr. 1 Tm 4,14; 2 Tm 1,6-7), dono che è
stato trasmesso fino a noi nella consacrazione episcopale. Il santo Concilio insegna
quindi che con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del
sacramento dell'ordine, quella cioè che dalla consuetudine liturgica della
Chiesa e dalla voce dei santi Padri viene chiamata sommo sacerdozio, realtà
totale del sacro ministero. La consacrazione episcopale conferisce pure, con
l'ufficio di santificare, gli uffici di insegnare e governare; questi però, per
loro natura, non possono essere esercitati se non nella comunione gerarchica
col capo e con le membra del collegio. Dalla tradizione infatti, quale risulta
specialmente dai riti liturgici e dall'uso della Chiesa sia d'Oriente che
d'Occidente, consta chiaramente che dall'imposizione delle mani e dalle parole
della consacrazione è conferita la grazia dello Spirito Santo ed è impresso il
sacro carattere in maniera tale che i vescovi, in modo eminente e visibile,
tengono il posto dello stesso Cristo maestro, pastore e pontefice, e agiscono
in sua vece. È proprio dei vescovi assumere col sacramento dell'ordine nuovi
eletti nel corpo episcopale.
Il collegio dei vescovi e il suo capo
22. Come san Pietro e gli altri apostoli costituiscono, per volontà del
Signore, un unico collegio apostolico, similmente il romano Pontefice,
successore di Pietro, e i vescovi, successori degli apostoli, sono uniti tra
loro. Già l'antichissima disciplina, in virtù della quale i vescovi di tutto il
mondo vivevano in comunione tra loro e col vescovo di Roma nel vincolo
dell'unità, della carità e della pace e parimenti la convocazione dei Concili
per decidere in comune di tutte le questioni più importanti mediante una
decisione che l'opinione dell'insieme permetteva di equilibrare significano il
carattere e la natura collegiale dell'ordine episcopale, che risulta
manifestamente confermata dal fatto dei Concili ecumenici tenuti lungo i
secoli. La stessa è pure suggerita dall'antico uso di convocare più vescovi per
partecipare all elevazione del nuovo eletto al ministero del sommo sacerdozio.
Uno è costituito membro del corpo episcopale in virtù della consacrazione
sacramentale e mediante la comunione gerarchica col capo del collegio e con le
sue membra.
Il collegio o corpo episcopale non ha però autorità, se non lo si concepisce
unito al Pontefice romano, successore di Pietro, quale suo capo, e senza
pregiudizio per la sua potestà di primato su tutti, sia pastori che fedeli.
Infatti il romano Pontefice, in forza tutta la Chiesa, ha su questa una potestà
piena, suprema e universale, che può sempre esercitare liberamente. D'altra
parte, l'ordine dei vescovi, il quale succede al collegio degli apostoli nel
magistero e nel governo pastorale, anzi, nel quale si perpetua il corpo
apostolico, è anch'esso insieme col suo capo il romano Pontefice, e mai senza
questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa
sebbene tale potestà non possa essere esercitata se non col consenso del romano
Pontefice. Il Signore ha posto solo Simone come pietra e clavigero della Chiesa
(cfr. Mt 16,18-19), e lo ha costituito pastore di tutto il suo gregge (cfr. Gv
21,15 ss); ma l'ufficio di legare e di sciogliere, che è stato dato a Pietro
(cfr. Mt 16,19), è noto essere stato pure concesso al collegio degli apostoli,
congiunto col suo capo (cfr. Mt 18,18; 28,16-20). Questo collegio, in quanto
composto da molti, esprime la varietà e l'universalità del popolo di Dio; in
quanto poi è raccolto sotto un solo capo, significa l'unità del gregge di
Cristo. In esso i vescovi, rispettando fedelmente il primato e la preminenza
del loro capo, esercitano la propria potestà per il bene dei loro fedeli, anzi
di tutta la Chiesa, mente lo Spirito Santo costantemente consolida la sua
struttura organica e la sua concordia. La suprema potestà che questo collegio
possiede su tutta la Chiesa, è esercitata in modo solenne nel Concilio ecumenico.
Mai può esserci Concilio ecumenico, che come tale non sia confermato o almeno
accettato dal successore di Pietro; ed è prerogativa del romano Pontefice
convocare questi Concili, presiederli e confermarli. La stessa potestà
collegiale insieme col papa può essere esercitata dai vescovi sparsi per il
mondo, purché il capo del collegio li chiami ad agire collegialmente, o almeno
approvi o liberamente accetti l'azione congiunta dei vescovi dispersi, così da
risultare un vero atto collegiale.
Le relazioni all'interno del collegio episcopale
23. L'unità collegiale appare anche nelle mutue relazioni dei singoli vescovi
con Chiese particolari e con la Chiesa universale. Il romano Pontefice, quale
successore di Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento
dell'unità sia dei vescovi sia della massa dei fedeli. I singoli vescovi,
invece, sono il visibile principio e fondamento di unità nelle loro Chiese
particolari queste sono formate ad immagine della Chiesa universale, ed è in
esse e a partire da esse che esiste la Chiesa cattolica una e unica. Perciò i
singoli vescovi rappresentano la propria Chiesa, e tutti insieme col Papa
rappresentano la Chiesa universale in un vincolo di pace, di amore e di unità.
I singoli vescovi, che sono preposti a Chiese particolari, esercitano il loro
pastorale governo sopra la porzione del popolo di Dio che è stata loro
affidata, non sopra le altre Chiese né sopra la Chiesa universale. Ma in quanto
membri del collegio episcopale e legittimi successori degli apostoli, per istituzione
e precetto di Cristo sono tenuti ad avere per tutta la Chiesa una sollecitudine
che, sebbene non sia esercitata con atti di giurisdizione, contribuisce
sommamente al bene della Chiesa universale. Tutti i vescovi, infatti, devono
promuovere e difendere l'unità della fede e la disciplina comune all'insieme
della Chiesa, formare i fedeli all'amore per tutto il corpo mistico di Cristo,
specialmente delle membra povere, sofferenti e di quelle che sono perseguitate
a causa della giustizia (cfr. Mt 5,10), e infine promuovere ogni attività
comune alla Chiesa, specialmente nel procurare che la fede cresca e sorga per
tutti gli uomini la luce della piena verità. Del resto è certo che, reggendo
bene la propria Chiesa come una porzione della Chiesa universale, contribuiscono
essi stessi efficacemente al bene di tutto il corpo mistico, che è pure il
corpo delle Chiese.
La cura di annunziare il Vangelo in ogni parte della terra appartiene al corpo
dei pastori, ai quali tutti, in comune, Cristo diede il mandato, imponendo un
comune dovere, come già papa Celestino ricordava ai Padri del Concilio Efesino.
Quindi i singoli vescovi, per quanto lo permette l'esercizio del particolare
loro dovere, sono tenuti a collaborare tra di loro e col successore di Pietro,
al quale in modo speciale fu affidato l'altissimo ufficio di propagare il nome
cristiano. Con tutte le forze devono fornire alle missioni non solo gli operai
della messe, ma anche aiuti spirituali e materiali, sia da sé direttamente, sia
suscitando la fervida cooperazione dei fedeli. I vescovi, infine, in universale
comunione di carità, offrano volentieri il loro fraterno aiuto alle altre
Chiese, specialmente alle più vicine e più povere, seguendo in questo il
venerando esempio dell'antica Chiesa.
Per divina Provvidenza è avvenuto che varie Chiese, in vari luoghi stabilite
dagli apostoli e dai loro successori, durante i secoli si sono costituite in
vari raggruppamenti, organicamente congiunti, i quali, salva restando l'unità
della fede e l'unica costituzione divina della Chiesa universale, godono di una
propria disciplina, di un proprio uso liturgico, di un proprio patrimonio
teologico e spirituale. Alcune fra esse, soprattutto le antiche Chiese
patriarcali, quasi matrici della fede, ne hanno generate altre a modo di figlie,
colle quali restano fino ai nostri tempi legate da un più stretto vincolo di
carità nella vita sacramentale e nel mutuo rispetto dei diritti e dei doveri.
Questa varietà di Chiese locali tendenti all'unità dimostra con maggiore
evidenza la cattolicità della Chiesa indivisa. In modo simile le Conferenze
episcopali possono oggi portare un molteplice e fecondo contributo acciocché il
senso di collegialità si realizzi concretamente.
Il ministero episcopale
24. I vescovi, quali successori degli apostoli, ricevono dal Signore, cui è
data ogni potestà in cielo e in terra, la missione d'insegnare a tutte le genti
e di predicare il Vangelo ad ogni creatura, affinché tutti gli uomini, per
mezzo della fede, del battesimo e dell'osservanza dei comandamenti, ottengano
la salvezza (cfr. Mt 28,18-20; Mc 16,15-16; At 26,17 ss). Per compiere questa
missione, Cristo Signore promise agli apostoli lo Spirito Santo e il giorno di
Pentecoste lo mandò dal cielo, perché con la sua forza essi gli fossero
testimoni fino alla estremità della terra, davanti alle nazioni e ai popoli e
ai re (cfr. At 1,8; 2,1 ss; 9,15). L'ufficio poi che il Signore affidò ai
pastori del suo popolo, è un vero servizio, che nella sacra Scrittura è
chiamato significativamente “ diaconia ”, cioè ministero (cfr. At 1,17 e 25;
21,19; Rm 11,13; 1 Tm 1,12).
La missione canonica dei vescovi può essere data per mezzo delle legittime
consuetudini, non revocate dalla suprema e universale potestà della Chiesa, o
per mezzo delle leggi fatte dalla stessa autorità o da essa riconosciute,
oppure direttamente dallo stesso successore di Pietro; se questi rifiuta o nega
la comunione apostolica, i vescovi non possono essere assunti all'ufficio.
La funzione d'insegnamento dei vescovi
25. Tra i principali doveri dei vescovi eccelle la predicazione del Vangelo. I
vescovi, infatti, sono gli araldi della fede che portano a Cristo nuovi
discepoli; sono dottori autentici, cioè rivestiti dell'autorità di Cristo, che
predicano al popolo loro affidato la fede da credere e da applicare nella
pratica della vita, la illustrano alla luce dello Spirito Santo, traendo fuori
dal tesoro della Rivelazione cose nuove e vecchie (cfr. Mt 13,52), la fanno
fruttificare e vegliano per tenere lontano dal loro gregge gli errori che lo
minacciano (cfr. 2 Tm 4,1-4) . I vescovi che insegnano in comunione col romano
Pontefice devono essere da tutti ascoltati con venerazione quali testimoni
della divina e cattolica verità; e i fedeli devono accettare il giudizio dal
loro vescovo dato a nome di Cristo in cose di fede e morale, e dargli l'assenso
religioso del loro spirito. Ma questo assenso religioso della volontà e della
intelligenza lo si deve in modo particolare prestare al magistero autentico del
romano Pontefice, anche quando non parla “ ex cathedra ”. Ciò implica che il
suo supremo magistero sia accettato con riverenza, e che con sincerità si
aderisca alle sue affermazioni in conformità al pensiero e in conformità alla
volontà di lui manifestatasi che si possono dedurre in particolare dal carattere
dei documenti, o dall'insistenza nel proporre una certa dottrina, o dalla
maniera di esprimersi.
Quantunque i vescovi, presi a uno a uno, non godano della prerogativa
dell'infallibilità, quando tuttavia, anche dispersi per il mondo, ma
conservando il vincolo della comunione tra di loro e col successore di Pietro,
si accordano per insegnare autenticamente che una dottrina concernente la fede
e i costumi si impone in maniera assoluta, allora esprimono infallibilmente la
dottrina di Cristo. La cosa è ancora più manifesta quando, radunati in Concilio
ecumenico, sono per tutta la Chiesa dottori e giudici della fede e della
morale; allora bisogna aderire alle loro definizioni con l'ossequio della fede.
Questa infallibilità, della quale il divino Redentore volle provveduta la sua
Chiesa nel definire la dottrina della fede e della morale, si estende tanto,
quanto il deposito della divina Rivelazione, che deve essere gelosamente
custodito e fedelmente esposto. Di questa infallibilità il romano Pontefice,
capo del collegio dei vescovi, fruisce in virtù del suo ufficio, quando, quale
supremo pastore e dottore di tutti i fedeli che conferma nella fede i suoi
fratelli (cfr. Lc 22,32), sancisce con atto definitivo una dottrina riguardante
la fede e la morale. Perciò le sue definizioni giustamente sono dette
irreformabili per se stesse e non in virtù del consenso della Chiesa, essendo
esse pronunziate con l'assistenza dello Spirito Santo a lui promessa nella
persona di san Pietro, per cui non hanno bisogno di una approvazione di altri,
né ammettono appello alcuno ad altro giudizio. In effetti allora il romano
Pontefice pronunzia sentenza non come persona privata, ma espone o difende la
dottrina della fede cattolica quale supremo maestro della Chiesa universale,
singolarmente insignito del carisma dell'infallibilità della Chiesa stessa.
L'infallibilità promessa alla Chiesa risiede pure nel corpo episcopale quando
esercita il supremo magistero col successore di Pietro. A queste definizioni
non può mai mancare l'assenso della Chiesa, data l'azione dello stesso Spirito
Santo che conserva e fa progredire nell'unità della fede tutto il gregge di
Cristo.
Quando poi il romano Pontefice o il corpo dei vescovi con lui esprimono una
sentenza, la emettono secondo la stessa Rivelazione, cui tutti devono attenersi
e conformarsi, Rivelazione che è integralmente trasmessa per scritto o per
tradizione dalla legittima successione dei vescovi e specialmente a cura dello
stesso Pontefice romano, e viene nella Chiesa gelosamente conservata e fedelmente
esposta sotto la luce dello Spirito di verità. Perché poi sia debitamente
indagata ed enunziata in modo adatto, il romano Pontefice e i vescovi nella
coscienza del loro ufficio e della gravità della cosa, prestano la loro vigile
opera usando i mezzi convenienti però non ricevono alcuna nuova rivelazione
pubblica come appartenente al deposito divino della fede.
La funzione di santificazione
26. Il vescovo, insignito della pienezza del sacramento dell'ordine, è “
l'economo della grazia del supremo sacerdozio” specialmente nell'eucaristia,
che offre egli stesso o fa offrire e della quale la Chiesa continuamente vive e
cresce. Questa Chiesa di Cristo è veramente presente nelle legittime comunità
locali di fedeli, le quali, unite ai loro pastori, sono anch'esse chiamate
Chiese nel Nuovo Testamento. Esse infatti sono, ciascuna nel proprio
territorio, il popolo nuovo chiamato da Dio nello Spirito Santo e in una grande
fiducia (cfr. 1 Ts 1,5). In esse con la predicazione del Vangelo di Cristo
vengono radunati i fedeli e si celebra il mistero della Cena del Signore, “
affinché per mezzo della carne e del sangue del Signore siano strettamente
uniti tutti i fratelli della comunità”. In ogni comunità che partecipa
all'altare, sotto la sacra presidenza del vescovo viene offerto il simbolo di
quella carità e “ unità del corpo mistico, senza la quale non può esserci
salvezza”. In queste comunità, sebbene spesso piccole e povere e disperse, è
presente Cristo, per virtù del quale si costituisce la Chiesa una, santa, cattolica
e apostolica. Infatti “ la partecipazione del corpo e del sangue di Cristo
altro non fa, se non che ci mutiamo in ciò che riceviamo ”.
Ogni legittima celebrazione dell'eucaristia è diretta dal vescovo, al quale è
demandato il compito di prestare e regolare il culto della religione cristiana
alla divina Maestà, secondo i precetti del Signore e le leggi della Chiesa, dal
suo particolare giudizio ulteriormente determinante per la propria diocesi. In
questo modo i vescovi, con la preghiera e il lavoro per il popolo, in varie
forme effondono abbondantemente la pienezza della santità di Cristo. Col
ministero della parola comunicano la forza di Dio per la salvezza dei credenti
(cfr. Rm 1,16), e con i sacramenti, dei quali con la loro autorità organizzano la
regolare e fruttuosa distribuzione santificano i fedeli. Regolano
l'amministrazione del battesimo, col quale è concesso partecipare al regale
sacerdozio di Cristo. Sono i ministri originari della confermazione,
dispensatori degli ordini sacri e moderatori della disciplina penitenziale, e
con sollecitudine esortano e istruiscono le loro popolazioni, affinché nella
liturgia e specialmente nel santo sacrificio della messa compiano la loro parte
con fede e devozione. Devono, infine, coll'esempio della loro vita aiutare
quelli a cui presiedono, serbando i loro costumi immuni da ogni male, e per
quanto possono, con l'aiuto di Dio mutandoli in bene, onde possano, insieme col
gregge loro affidato, giungere alla vita eterna.
La funzione di governo
27. I vescovi reggono le Chiese particolari a loro affidate come vicari e
legati di Cristo, col consiglio, la persuasione, l'esempio, ma anche con
l'autorità e la sacra potestà, della quale però non si servono se non per
edificare il proprio gregge nella verità e nella santità, ricordandosi che chi
è più grande si deve fare come il più piccolo, e chi è il capo, come chi serve
(cfr. Lc 22,26-27). Questa potestà, che personalmente esercitano in nome di
Cristo, è propria, ordinaria e immediata, quantunque il suo esercizio sia in
ultima istanza sottoposto alla suprema autorità della Chiesa e, entro certi
limiti, in vista dell'utilità della Chiesa o dei fedeli, possa essere
ristretto. In virtù di questa potestà i vescovi hanno il sacro diritto e
davanti al Signore il dovere di dare leggi ai loro sudditi, di giudicare e di
regolare tutto quanto appartiene al culto e all'apostolato.
Ad essi è pienamente affidato l'ufficio pastorale ossia l'abituale e quotidiana
cura del loro gregge; né devono essere considerati vicari dei romani Pontefici,
perché sono rivestiti di autorità propria e con tutta verità sono detti “
sovrintendenti delle popolazioni ” che governano. La loro potestà quindi non è
annullata dalla potestà suprema e universale, ma anzi è da essa affermata,
corroborata e rivendicata, poiché è lo Spirito Santo che conserva invariata la
forma di governo da Cristo Signore stabilita nella sua Chiesa.
Il vescovo, mandato dal padre di famiglia a governare la sua famiglia, tenga
innanzi agli occhi l'esempio del buon Pastore, che è venuto non per essere
servito ma per servire (cfr. Mt 20,28; Mc 10,45) e dare la sua vita per le
pecore (cfr. Gv 10,11). Preso di mezzo agli uomini e soggetto a debolezza, può
benignamente compatire gli ignoranti o gli sviati (cfr. Eb 5,1-2). Non rifugga dall'ascoltare
quelli che dipendono da lui, curandoli come veri figli suoi ed esortandoli a
cooperare alacremente con lui. Dovendo render conto a Dio delle loro anime
(cfr. Eb 13,17), abbia cura di loro con la preghiera, la predicazione e ogni
opera di carità; la sua sollecitudine si estenda anche a quelli che non fanno
ancor parte dell'unico gregge e li consideri come affidatigli dal Signore.
Essendo egli, come l'apostolo Paolo, debitore a tutti, sia pronto ad annunziare
il Vangelo a tutti (cfr. Rrn 1,14-15) e ad esortare i suoi fedeli all'attività
apostolica e missionaria. I fedeli poi devono aderire al vescovo come la Chiesa
a Gesù Cristo e come Gesù Cristo al Padre, affinché tutte le cose siano
concordi e unite 61 e siano feconde per la gloria di Dio (cfr. 2 Cor 4,15).
I sacerdoti e i loro rapporti con Cristo, con i vescovi, con i confratelli e
con il popolo cristiano
28. Cristo, santificato e mandato nel mondo dal Padre (cfr. Gv 10,36), per
mezzo degli apostoli ha reso partecipi della sua consacrazione e della sua
missione i loro successori, cioè i vescovi a loro volta i vescovi hanno
legittimamente affidato a vari membri della Chiesa, in vario grado, l'ufficio
del loro ministero. Così il ministero ecclesiastico di istituzione divina viene
esercitato in diversi ordini, da quelli che già anticamente sono chiamati
vescovi, presbiteri, diaconi. I presbiteri, pur non possedendo l'apice del
sacerdozio e dipendendo dai vescovi nell'esercizio della loro potestà, sono
tuttavia a loro congiunti nella dignità sacerdotale e in virtù del sacramento
dell'ordine ad immagine di Cristo, sommo ed eterno sacerdote (cfr. Eb 5,1-10;
7,24; 9,11-28), sono consacrati per predicare il Vangelo, essere i pastori
fedeli e celebrare il culto divino, quali veri sacerdoti del Nuovo Testamento.
Partecipi, nel loro grado di ministero, dell'ufficio dell'unico mediatore, che
è il Cristo (cfr. 1 Tm 2,5) annunziano a tutti la parola di Dio. Esercitano il
loro sacro ministero soprattutto nel culto eucaristico o sinassi, dove, agendo
in persona di Cristo e proclamando il suo mistero, uniscono le preghiere dei
fedeli al sacrificio del loro capo e nel sacrificio della messa rendono
presente e applicano fino alla venuta del Signore (cfr. 1 Cor 11,26), l'unico
sacrificio del Nuovo Testamento, quello cioè di Cristo, il quale una volta per
tutte offrì se stesso al Padre quale vittima immacolata (cfr. Eb 9,11-28).
Esercitano inoltre il ministero della riconciliazione e del conforto a favore
dei fedeli penitenti o ammalati e portano a Dio Padre le necessità e le
preghiere dei fedeli (cfr. Eb 5,1-4). Esercitando, secondo la loro parte di
autorità, l'ufficio di Cristo, pastore e capo, raccolgono la famiglia di Dio,
quale insieme di fratelli animati da un solo spirito, per mezzo di Cristo nello
Spirito li portano al Padre e in mezzo al loro gregge lo adorano in spirito e
verità (cfr. Gv 4,24). Si affaticano inoltre nella predicazione e
nell'insegnamento (cfr. 1 Tm 5,17), credendo ciò che hanno letto e meditato
nella legge del Signore, insegnando ciò che credono, vivendo ciò che insegnano.
I sacerdoti, saggi collaboratori dell'ordine episcopale e suo aiuto e
strumento, chiamati a servire il popolo di Dio, costituiscono col loro vescovo
un solo presbiterio sebbene destinato a uffici diversi. Nelle singole comunità
locali di fedeli rendono in certo modo presente il vescovo, cui sono uniti con
cuore confidente e generoso, ne assumono secondo il loro grado, gli uffici e la
sollecitudine e li esercitano con dedizione quotidiana. Essi, sotto l'autorità
del vescovo, santificano e governano la porzione di gregge del Signore loro
affidata, nella loro sede rendono visibile la Chiesa universale e portano un
grande contributo all'edificazione di tutto il corpo mistico di Cristo (cfr. Ef
4,12). Sempre intenti al bene dei figli di Dio, devono mettere il loro zelo nel
contribuire al lavoro pastorale di tutta la diocesi, anzi di tutta la Chiesa.
In ragione di questa loro partecipazione nel sacerdozio e nel lavoro apostolico
del vescovo, i sacerdoti riconoscano in lui il loro padre e gli obbediscano con
rispettoso amore. Il vescovo, poi, consideri i sacerdoti, i suoi cooperatori,
come figli e amici così come il Cristo chiama i suoi discepoli non servi, ma
amici (cfr. Gv 15,15). Per ragione quindi dell'ordine e del ministero, tutti i
sacerdoti sia diocesani che religiosi, sono associati al corpo episcopale e,
secondo la loro vocazione e grazia, servono al bene di tutta la Chiesa.
In virtù della comunità di ordinazione e missione tutti i sacerdoti sono fra
loro legati da un'intima fraternità, che deve spontaneamente e volentieri
manifestarsi nel mutuo aiuto, spirituale e materiale, pastorale e personale,
nelle riunioni e nella comunione di vita, di lavoro e di carità.
Abbiano poi cura, come padri in Cristo, dei fedeli che hanno spiritualmente
generato col battesimo e l'insegnamento (cfr. 1 Cor 4,15; 1 Pt 1,23). Divenuti
spontaneamente modelli del gregge (cfr. 1 Pt 5,3) presiedano e servano la loro
comunità locale, in modo che questa possa degnamente esser chiamata col nome di
cui è insignito l'unico popolo di Dio nella sua totalità, cioè Chiesa di Dio
(cfr. 1 Cor 1,2; 2 Cor 1,1). Si ricordino che devono, con la loro quotidiana
condotta e con la loro sollecitudine, presentare ai fedeli e infedeli,
cattolici e non cattolici, l'immagine di un ministero veramente sacerdotale e
pastorale, e rendere a tutti la testimonianza della verità e della vita; e come
buoni pastori ricercare anche quelli (cfr. Lc 15,4-7) che, sebbene battezzati
nella Chiesa cattolica, hanno abbandonato la pratica dei sacramenti o persino
la fede.
Siccome oggigiorno l'umanità va sempre più organizzandosi in una unità civile,
economica e sociale, tanto più bisogna che i sacerdoti, consociando il loro
zelo e il loro lavoro sotto la guida dei vescovi e del sommo Pontefice,
eliminino ogni causa di dispersione, affinché tutto il genere umano sia
ricondotto all'unità della famiglia di Dio.
I diaconi
29. In un grado inferiore della gerarchia stanno i diaconi, ai quali sono
imposte le mani “ non per il sacerdozio, ma per il servizio ”. Infatti,
sostenuti dalla grazia sacramentale, nella “ diaconia ” della liturgia, della
predicazione e della carità servono il popolo di Dio, in comunione col vescovo
e con il suo presbiterio. È ufficio del diacono, secondo le disposizioni della competente
autorità, amministrare solennemente il battesimo, conservare e distribuire
l'eucaristia, assistere e benedire il matrimonio in nome della Chiesa, portare
il viatico ai moribondi, leggere la sacra Scrittura ai fedeli, istruire ed
esortare il popolo, presiedere al culto e alla preghiera dei fedeli,
amministrare i sacramentali, presiedere al rito funebre e alla sepoltura.
Essendo dedicati agli uffici di carità e di assistenza, i diaconi si ricordino
del monito di S. Policarpo: “ Essere misericordiosi, attivi, camminare secondo
la verità del Signore, il quale si è fatto servo di tutti ”.
E siccome questi uffici, sommamente necessari alla vita della Chiesa, nella
disciplina oggi vigente della Chiesa latina in molte regioni difficilmente
possono essere esercitati, il diaconato potrà in futuro essere ristabilito come
proprio e permanente grado della gerarchia. Spetterà poi alla competenza dei
raggruppamenti territoriali dei vescovi, nelle loro diverse forme, di decidere,
con l'approvazione dello stesso sommo Pontefice, se e dove sia opportuno che
tali diaconi siano istituiti per la cura delle anime. Col consenso del romano
Pontefice questo diaconato potrà essere conferito a uomini di età matura anche
viventi nel matrimonio, e così pure a dei giovani idonei, per i quali però deve
rimanere ferma la legge del celibato.
CAPITOLO IV
I LAICI
I laici nella Chiesa
30. Il santo Concilio, dopo aver illustrati gli uffici della gerarchia, con
piacere rivolge il pensiero allo stato di quei fedeli che si chiamano laici.
Sebbene quanto fu detto del popolo di Dio sia ugualmente diretto ai laici, ai
religiosi e al clero, ai laici tuttavia, sia uomini che donne, per la loro
condizione e missione, appartengono in particolare alcune cose, i fondamenti
delle quali, a motivo delle speciali circostanze del nostro tempo, devono
essere più accuratamente ponderati. I sacri pastori, infatti, sanno benissimo
quanto i laici contribuiscano al bene di tutta la Chiesa. Sanno di non essere
stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutto il peso della missione
salvifica della Chiesa verso il mondo, ma che il loro eccelso ufficio consiste
nel comprendere la loro missione di pastori nei confronti dei fedeli e nel
riconoscere i ministeri e i carismi propri a questi, in maniera tale che tutti
concordemente cooperino, nella loro misura, al bene comune. Bisogna infatti che
tutti “ mediante la pratica di una carità sincera, cresciamo in ogni modo verso
colui che è il capo, Cristo; da lui tutto il corpo, ben connesso e solidamente
collegato, attraverso tutte le giunture di comunicazione, secondo l'attività
proporzionata a ciascun membro, opera il suo accrescimento e si va edificando
nella carità” (Ef 4,15-16).
Natura e missione dei laici
31. Col nome di laici si intende qui l'insieme dei cristiani ad esclusione dei
membri dell'ordine sacro e dello stato religioso sancito nella Chiesa, i fedeli
cioè, che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti
popolo di Dio e, nella loro misura, resi partecipi dell'ufficio sacerdotale,
profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel
mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano.
Il carattere secolare è proprio e peculiare dei laici. Infatti, i membri
dell'ordine sacro, sebbene talora possano essere impegnati nelle cose del
secolo, anche esercitando una professione secolare, tuttavia per la loro
speciale vocazione sono destinati principalmente e propriamente al sacro
ministero, mentre i religiosi col loro stato testimoniano in modo splendido ed
esimio che il mondo non può essere trasfigurato e offerto a Dio senza lo
spirito delle beatitudini. Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il
regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel
secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e lavori del mondo e nelle
ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è
come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall'interno a
modo di fermento, alla santificazione del mondo esercitando il proprio ufficio
sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo a manifestare Cristo
agli altri principalmente con la testimonianza della loro stessa vita e col
fulgore della loro fede, della loro speranza e carità. A loro quindi particolarmente
spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono
strettamente legati, in modo che siano fatte e crescano costantemente secondo
il Cristo e siano di lode al Creatore e Redentore.
Dignità dei laici nel popolo di Dio
32. La santa Chiesa è, per divina istituzione, organizzata e diretta con
mirabile varietà. “A quel modo, infatti, che in uno- stesso corpo abbiamo molte
membra, e le membra non hanno tutte le stessa funzione, così tutti insieme
formiamo un solo corpo in Cristo, e individualmente siano membri gli uni degli
altri ” (Rm 12,4-5).
Non c'è quindi che un popolo di Dio scelto da lui: “ un solo Signore, una sola
fede, un solo battesimo ” (Ef 4,5); comune è la dignità dei membri per la loro
rigenerazione in Cristo, comune la grazia di adozione filiale, comune la
vocazione alla perfezione; non c'è che una sola salvezza, una sola speranza e
una carità senza divisioni. Nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e nella
Chiesa per riguardo alla stirpe o nazione, alla condizione sociale o al sesso,
poiché “ non c'è né Giudeo né Gentile, non c'è né schiavo né libero, non c'è né
uomo né donna: tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28 gr.; cfr. Col
3,11).
Se quindi nella Chiesa non tutti camminano per la stessa via, tutti però sono
chiamati alla santità e hanno ricevuto a titolo uguale la fede che introduce
nella giustizia di Dio (cfr. 2 Pt 1,1). Quantunque alcuni per volontà di Cristo
siano costituiti dottori, dispensatori dei misteri e pastori per gli altri,
tuttavia vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all'azione
comune a tutti i fedeli nell'edificare il corpo di Cristo. La distinzione
infatti posta dal Signore tra i sacri ministri e il resto del popolo di Dio
comporta in sé unione, essendo i pastori e gli altri fedeli legati tra di loro
da una comunità di rapporto: che i pastori della Chiesa sull'esempio di Cristo
sono a servizio gli uni degli altri e a servizio degli altri fedeli, e questi a
loro volta prestano volenterosi la loro collaborazione ai pastori e ai maestri.
Così, nella diversità stessa, tutti danno testimonianza della mirabile unità
nel corpo di Cristo: poiché la stessa diversità di grazie, di ministeri e di
operazioni raccoglie in un tutto i figli di Dio, dato che “ tutte queste cose
opera... un unico e medesimo Spirito” (1 Cor 12,11).
I laici quindi, come per benevolenza divina hanno per fratello Cristo, il
quale, pur essendo Signore di tutte le cose, non è venuto per essere servito,
ma per servire (cfr. Mt 20,28), così anche hanno per fratelli coloro che, posti
nel sacro ministero, insegnando e santificando e reggendo per autorità di
Cristo, svolgono presso la famiglia di Dio l'ufficio di pastori, in modo che
sia da tutti adempito il nuovo precetto della carità. A questo proposito dice molto
bene sant'Agostino: “ Se mi spaventa l'essere per voi, mi rassicura l'essere
con voi. Perché per voi sono vescovo, con voi sono cristiano. Quello è nome di
ufficio, questo di grazia; quello è nome di pericolo, questo di salvezza ”.
L'apostolato dei laici
33. I laici, radunati nel popolo di Dio e costituiti nell'unico corpo di Cristo
sotto un solo capo, sono chiamati chiunque essi siano, a contribuire come
membra vive, con tutte le forze ricevute dalla bontà del Creatore e dalla
grazia del Redentore, all'incremento della Chiesa e alla sua santificazione
permanente.
L'apostolato dei laici è quindi partecipazione alla missione salvifica stessa
della Chiesa; a questo apostolato sono tutti destinati dal Signore stesso per
mezzo del battesimo e della confermazione. Dai sacramenti poi, e specialmente
dalla sacra eucaristia, viene comunicata e alimentata quella carità verso Dio e
gli uomini che è l'anima di tutto l'apostolato. Ma i laici sono soprattutto
chiamati a rendere presente e operosa la Chiesa in quei luoghi e in quelle
circostanze, in cui essa non può diventare sale della terra se non per loro
mezzo. Così ogni laico, in virtù dei doni che gli sono stati fatti, è
testimonio e insieme vivo strumento della stessa missione della Chiesa “
secondo la misura del dono del Cristo ” (Ef 4,7).
Oltre a questo apostolato, che spetta a tutti i fedeli senza eccezione, i laici
possono anche essere chiamati in diversi modi a collaborare più immediatamente
con l'apostolato della gerarchia a somiglianza di quegli uomini e donne che
aiutavano l'apostolo Paolo nell'evangelizzazione, faticando molto per il
Signore (cfr. Fil 4,3; Rm 16,3 ss). Hanno inoltre la capacità per essere
assunti dalla gerarchia ad esercitare, per un fine spirituale, alcuni uffici
ecclesiastici.
Grava quindi su tutti i laici il glorioso peso di lavorare, perché il disegno
divino di salvezza raggiunga ogni giorno più tutti gli uomini di tutti i tempi
e di tutta la terra. Sia perciò loro aperta qualunque via affinché, secondo le
loro forze e le necessità dei tempi, anch'essi attivamente partecipino
all'opera salvifica della Chiesa.
Partecipazione dei laici al sacerdozio comune
34. Il sommo ed eterno sacerdote Gesù Cristo, volendo continuare la sua
testimonianza e il suo ministero anche attraverso i laici, li vivifica col suo
Spirito e incessantemente li spinge ad ogni opera buona e perfetta.
A coloro infatti che intimamente congiunge alla sua vita e alla sua missione,
concede anche di aver parte al suo ufficio sacerdotale per esercitare un culto
spirituale, in vista della glorificazione di Dio e della salvezza degli uomini.
Perciò i laici, essendo dedicati a Cristo e consacrati dallo Spirito Santo,
sono in modo mirabile chiamati e istruiti per produrre frutti dello Spirito
sempre più abbondanti. Tutte infatti le loro attività, preghiere e iniziative
apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo
spirituale e corporale, se sono compiute nello Spirito, e anche le molestie
della vita, se sono sopportate con pazienza, diventano offerte spirituali
gradite a Dio attraverso Gesù Cristo (cfr. 1 Pt 2,5); nella celebrazione
dell'eucaristia sono in tutta pietà presentate al Padre insieme all'oblazione
del Corpo del Signore. Così anche i laici, in quanto adoratori dovunque
santamente operanti, consacrano a Dio il mondo stesso.
Partecipazione dei laici alla funzione profetica del Cristo
35. Cristo, il grande profeta, il quale con la testimonianza della sua vita e
con la potenza della sua parola ha proclamato il regno del Padre, adempie il
suo ufficio profetico fino alla piena manifestazione della gloria, non solo per
mezzo della gerarchia, che insegna in nome e con la potestà di lui, ma anche
per mezzo dei laici, che perciò costituisce suoi testimoni provvedendoli del
senso della fede e della grazia della parola (cfr. At 2,17-18; Ap 19,10),
perché la forza del Vangelo risplenda nella vita quotidiana, familiare e
sociale. Essi si mostrano figli della promessa quando, forti nella fede e nella
speranza, mettono a profitto il tempo presente (cfr. Ef 5,16; Col 4,5) e con
pazienza aspettano la gloria futura (cfr. Rm 8,25). E questa speranza non
devono nasconderla nel segreto del loro cuore, ma con una continua conversione
e lotta “contro i dominatori di questo mondo tenebroso e contro gli spiriti
maligni” (Ef 6,12), devono esprimerla anche attraverso le strutture della vita
secolare.
Come i sacramenti della nuova legge, alimento della vita e dell'apostolato dei
fedeli, prefigurano un cielo nuovo e una nuova terra (cfr. Ap 21,1), così i
laici diventano araldi efficaci della fede in ciò che si spera (cfr. Eb 11,1),
se senza incertezze congiungono a una vita di fede la professione di questa
stessa fede. Questa evangelizzazione o annunzio di Cristo fatto con la
testimonianza della vita e con la parola acquista una certa nota specifica e
una particolare efficacia dal fatto che viene compiuta nelle comuni condizioni
del secolo.
In questo ordine di funzioni appare di grande valore quello stato di vita che è
santificato da uno speciale sacramento: la vita matrimoniale e familiare.
L'esercizio e scuola per eccellenza di apostolato dei laici si ha là dove la
religione cristiana permea tutta l'organizzazione della vita e ogni giorno più
la trasforma. Là i coniugi hanno la propria vocazione: essere l'uno all'altro e
ai figli testimoni della fede e dell'amore di Cristo. La famiglia cristiana
proclama ad alta voce allo stesso tempo le virtù presenti del regno di Dio e la
speranza della vita beata. Così, col suo esempio e con la sua testimonianza,
accusa il mondo di peccato e illumina quelli che cercano la verità.
I laici quindi, anche quando sono occupati in cure temporali, possono e devono
esercitare una preziosa azione per l'evangelizzazione del mondo. Alcuni di
loro, in mancanza di sacri ministri o essendo questi impediti in regime di
persecuzione, suppliscono alcuni uffici sacri secondo le proprie possibilità;
altri, più numerosi, spendono tutte le loro forze nel lavoro apostolico:
bisogna tuttavia che tutti cooperino all estensione e al progresso del regno di
Cristo nel mondo. Perciò i laici si applichino con diligenza all
approfondimento della verità rivelata e domandino insistentemente a Dio il dono
della sapienza.
Partecipazione dei laici al servizio regale
36. Cristo, fattosi obbediente fino alla morte e perciò esaltato dal Padre
(cfr. Fil 2,8-9), è entrato nella gloria del suo regno; a lui sono sottomesse
tutte le cose, fino a che egli sottometta al Padre se stesso e tutte le
creature, affinché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1 Cor 15,27-28). Questa potestà
egli l'ha comunicata ai discepoli, perché anch'essi siano costituiti nella
libertà regale e con l'abnegazione di sé e la vita santa vincano in se stessi
il regno del peccato anzi, servendo il Cristo anche negli altri, con umiltà e
pazienza conducano i loro fratelli al Re, servire i1 quale è regnare. Il
Signore infatti desidera estendere il suo regno anche per mezzo dei fedeli
laici: i1 suo regno che è regno “ di verità e di vita, regno di santità e di
grazia, regno di giustizia, di amore e di pace ” e in questo regno anche le
stesse creature saranno liberate dalla schiavitù della corruzione per
partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio (cfr. Rm 8,21). Grande
veramente è la promessa, grande il comandamento dato ai discepoli: “ Tutto è
vostro, ma voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio ” (1 Cor 3,23).
I fedeli perciò devono riconoscere la natura profonda di tutta la creazione, il
suo valore e la sua ordinazione alla lode di Dio, e aiutarsi a vicenda a una
vita più santa anche con opere propriamente secolari, affinché il mondo si
impregni dello spirito di Cristo e raggiunga più efficacemente il suo fine
nella giustizia, nella carità e nella pace. Nel compimento universale di questo
ufficio, i laici hanno il posto di primo piano. Con la loro competenza quindi
nelle discipline profane e con la loro attività, elevata intrinsecamente dalla
grazia di Cristo, portino efficacemente l'opera loro, affinché i beni creati,
secondo i fini del Creatore e la luce del suo Verbo, siano fatti progredire dal
lavoro umano, dalla tecnica e dalla cultura civile per l'utilità di tutti gli
uomini senza eccezione, e siano tra loro più convenientemente distribuiti e,
secondo la loro natura, portino al progresso universale nella libertà umana e
cristiana. Così Cristo per mezzo dei membri della Chiesa illuminerà sempre di
più l'intera società umana con la sua luce che salva.
Inoltre i laici, anche consociando le forze, risanino le istituzioni e le
condizioni del mondo, se ve ne siano che provocano al peccato, così che tutte
siano rese conformi alle norme della giustizia e, anziché ostacolare,
favoriscano l'esercizio delle virtù. Così agendo impregneranno di valore morale
la cultura e le opere umane. In questo modo il campo del mondo si trova meglio
preparato per accogliere il seme della parola divina, e insieme le porte della
Chiesa si aprono più larghe, per permettere che l'annunzio della pace entri nel
mondo.
Per l'economia stessa della salvezza imparino i fedeli a ben distinguere tra i
diritti e i doveri, che loro incombono in quanto membri della Chiesa, e quelli
che competono loro in quanto membri della società umana. cerchino di metterli
in armonia fra loro, ricordandosi che in ogni cosa temporale devono essere
guidati dalla coscienza cristiana, poiché nessuna attività umana, neanche nelle
cose temporali, può essere sottratta al comando di Dio. Nel nostro tempo è
sommamente necessario che questa distinzione e questa armonia risplendano nel
modo più chiaro possibile nella maniera di agire dei fedeli, affinché la
missione della Chiesa possa più pienamente rispondere alle particolari
condizioni del mondo moderno. Come infatti si deve riconoscere che la città
terrena, legittimamente dedicata alle cure secolari, è retta da propri
principi, così a ragione è rigettata 1 infausta dottrina che pretende di
costruire la società senza alcuna considerazione per la religione e impugna ed
elimina la libertà religiosa dei cittadini.
I laici e la gerarchia
37. I laici, come tutti i fedeli, hanno il diritto di ricevere abbondantemente
dai sacri pastori i beni spirituali della Chiesa, soprattutto gli aiuti della
parola di Dio e dei sacramenti; ad essi quindi manifestino le loro necessità e
i loro desideri con quella libertà e fiducia che si addice ai figli di Dio e ai
fratelli in Cristo. Secondo la scienza, competenza e prestigio di cui godono,
hanno la facoltà, anzi talora anche il dovere, di far conoscere il loro parere
su cose concernenti il bene della Chiesa. Se occorre, lo facciano attraverso
gli organi stabiliti a questo scopo dalla Chiesa, e sempre con verità, fortezza
e prudenza, con rispetto e carità verso coloro che, per ragione del loro sacro
ufficio, rappresentano Cristo. I laici, come tutti i fedeli, con cristiana
obbedienza prontamente abbraccino ciò che i pastori, quali rappresentanti di
Cristo, stabiliscono in nome del loro magistero e della loro autorità nella
Chiesa, seguendo in ciò l'esempio di Cristo, il quale con la sua obbedienza
fino alla morte ha aperto a tutti gli uomini la via beata della libertà dei
figli di Dio. Né tralascino di raccomandare a Dio con le preghiere i loro
superiori, affinché, dovendo questi vegliare sopra le nostre anime come persone
che ne dovranno rendere conto, lo facciano con gioia e non gemendo (cfr. Eb
13,17).
I pastori, da parte loro, riconoscano e promuovano la dignità e la
responsabilità dei laici nella Chiesa; si servano volentieri del loro prudente
consiglio, con fiducia affidino loro degli uffici in servizio della Chiesa e
lascino loro libertà e margine di azione, anzi li incoraggino perché intraprendano
delle opere anche di propria iniziativa. Considerino attentamente e con paterno
affetto in Cristo le iniziative, le richieste e i desideri proposti dai laici
e, infine, rispettino e riconoscano quella giusta libertà, che a tutti compete
nella città terrestre.
Da questi familiari rapporti tra i laici e i pastori si devono attendere molti
vantaggi per la Chiesa: in questo modo infatti si afferma nei laici il senso
della propria responsabilità, ne è favorito lo slancio e le loro forze più
facilmente vengono associate all'opera dei pastori. E questi, aiutati
dall'esperienza dei laici, possono giudicare con più chiarezza e opportunità
sia in cose spirituali che temporali; e così tutta la Chiesa, forte di tutti i
suoi membri, compie con maggiore efficacia la sua missione per la vita del
mondo.
Conclusione
38. Ogni laico deve essere davanti al mondo un testimone della risurrezione e
della vita del Signore Gesù e un segno del Dio vivo. Tutti insieme, e ognuno
per la sua parte, devono nutrire il mondo con i frutti spirituali (cfr. Gal
5,22) e in esso diffondere lo spirito che anima i poveri, miti e pacifici, che
il Signore nel Vangelo proclamò beati (cfr. Mt 5,3-9). In una parola: “ ciò che
l'anima è nel corpo, questo siano i cristiani nel mondo ”.
CAPITOLO V
UNIVERSALE VOCAZIONE ALLA SANTITÀ NELLA CHIESA
La santità nella Chiesa
39. La Chiesa, il cui mistero è esposto dal sacro Concilio, è agli occhi della
fede indefettibilmente santa. Infatti Cristo, Figlio di Dio, il quale col Padre
e lo Spirito è proclamato “ il solo Santo ”, amò la Chiesa come sua sposa e
diede se stesso per essa, al fine di santificarla (cfr. Ef 5,25-26), l'ha unita
a sé come suo corpo e l'ha riempita col dono dello Spirito Santo, per la gloria
di Dio. Perciò tutti nella Chiesa, sia che appartengano alla gerarchia, sia che
siano retti da essa, sono chiamati alla santità, secondo le parole
dell'Apostolo: “ Sì, ciò che Dio vuole è la vostra santificazione ” (1 Ts 4,3;
cfr. Ef 1,4). Orbene, questa santità della Chiesa costantemente si manifesta e
si deve manifestare nei frutti della grazia che lo Spirito produce nei fedeli;
si esprime in varie forme in ciascuno di quelli che tendono alla carità
perfetta nella linea propria di vita ed edificano gli altri; e in un modo tutto
suo proprio si manifesta nella pratica dei consigli che si sogliono chiamare
evangelici. Questa pratica dei consigli, abbracciata da molti cristiani per
impulso dello Spirito Santo, sia a titolo privato, sia in una condizione o
stato sanciti nella Chiesa, porta e deve portare nel mondo una luminosa
testimonianza e un esempio di questa santità.
Vocazione universale alla santità
40. Il Signore Gesù, maestro e modello divino di ogni perfezione, a tutti e a
ciascuno dei suoi discepoli di qualsiasi condizione ha predicato quella santità
di vita, di cui egli stesso è autore e perfezionatore: “Siate dunque perfetti
come è perfetto il vostro Padre celeste” (Mt 5,48). Mandò infatti a tutti lo
Spirito Santo, che li muova internamente ad amare Dio con tutto il cuore, con
tutta l'anima, con tutta la mente, con tutte le forze (cfr Mc 12,30), e ad
amarsi a vicenda come Cristo ha amato loro (cfr. Gv 13,34; 15,12). I seguaci di
Cristo, chiamati da Dio, non a titolo delle loro opere, ma a titolo del suo
disegno e della grazia, giustificati in Gesù nostro Signore, nel battesimo
della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura
divina, e perciò realmente santi. Essi quindi devono, con l'aiuto di Dio,
mantenere e perfezionare con la loro vita la santità che hanno ricevuto. Li
ammonisce l'Apostolo che vivano “ come si conviene a santi ” (Ef 5,3), si
rivestano “come si conviene a eletti di Dio, santi e prediletti, di sentimenti
di misericordia, di bontà, di umiltà, di dolcezza e di pazienza ” (Col 3,12) e
portino i frutti dello Spirito per la loro santificazione (cfr. Gal 5,22; Rm
6,22). E poiché tutti commettiamo molti sbagli (cfr. Gc 3,2), abbiamo
continuamente bisogno della misericordia di Dio e dobbiamo ogni giorno pregare:
“ Rimetti a noi i nostri debiti ” (Mt 6,12).
È dunque evidente per tutti, che tutti coloro che credono nel Cristo di
qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e
alla perfezione della carità e che tale santità promuove nella stessa società
terrena un tenore di vita più umano. Per raggiungere questa perfezione i fedeli
usino le forze ricevute secondo la misura con cui Cristo volle donarle,
affinché, seguendo l'esempio di lui e diventati conformi alla sua immagine, in
tutto obbedienti alla volontà del Padre, con piena generosità si consacrino
alla gloria di Dio e al servizio del prossimo. Così la santità del popolo di
Dio crescerà in frutti abbondanti, come è splendidamente dimostrato nella
storia della Chiesa dalla vita di tanti santi.
Esercizio multiforme della santità
41. Nei vari generi di vita e nei vari compiti una unica santità è coltivata da
quanti sono mossi dallo Spirito di Dio e, obbedienti alla voce del Padre e
adorando in spirito e verità Dio Padre, camminano al seguito del Cristo povero,
umile e carico della croce, per meritare di essere partecipi della sua gloria.
Ognuno secondo i propri doni e uffici deve senza indugi avanzare per la via
della fede viva, la quale accende la speranza e opera per mezzo della carità.
In primo luogo i pastori del gregge di Cristo devono, a immagine del sommo ed
eterno sacerdote, pastore e vescovo delle anime nostre, compiere con santità e
slancio, umiltà e forza il proprio ministero: esso, così adempiuto, sarà anche
per loro un eccellente mezzo di santificazione. Chiamati per ricevere la
pienezza del sacerdozio, è loro data la grazia sacramentale affinché, mediante
la preghiera, il sacrificio e la predicazione, mediante ogni forma di cura e di
servizio episcopale, esercitino un perfetto ufficio di carità pastorale non
temano di dare la propria vita per le pecorelle e, fattisi modello del gregge
(cfr. 1 Pt 5,3), aiutino infine con l'esempio la Chiesa ad avanzare verso una
santità ogni giorno più grande.
I sacerdoti, a somiglianza dell'ordine dei vescovi, dei quali formano la corona
spirituale partecipando alla grazia dell'ufficio di quelli per mezzo di Cristo,
eterno ed unico mediatore, mediante il quotidiano esercizio del proprio ufficio
crescano nell'amore di Dio e del prossimo, conservino il vincolo della
comunione sacerdotale, abbondino in ogni bene spirituale e diano a tutti la
viva testimonianza di Dio emuli di quei sacerdoti che nel corso dei secoli, in
un servizio spesso umile e nascosto, hanno lasciato uno splendido esempio di
santità. La loro lode risuona nella Chiesa di Dio. Pregando e offrendo il
sacrificio, com'è loro dovere, per il loro popolo e per tutto il popolo di Dio,
cosciente di ciò che fanno e confermandosi ai misteri che compiono anziché
essere ostacolati dalle cure apostoliche, dai pericoli e dalle tribolazioni,
ascendano piuttosto per mezzo dì esse ad una maggiore santità, nutrendo e dando
slancio con l'abbondanza della contemplazione alla propria attività, per il
conforto di tutta la Chiesa di Dio. Tutti i sacerdoti e specialmente quelli
che, a titolo particolare della loro ordinazione, portano il nome di sacerdoti
diocesani, ricordino quanto contribuiscano alla loro santificazione la fedele
unione e la generosa cooperazione col loro vescovo.
Alla missione e alla grazia del supremo Sacerdote partecipano in modo proprio
anche i ministri di ordine inferiore; e prima di tutto i diaconi, i quali,
servendo i misteri di Dio e della Chiesa devono mantenersi puri da ogni vizio,
piacere a Dio e studiarsi di fare ogni genere di opere buone davanti agli
uomini (cfr. 1 Tm 3,8-10; e 12-13). I chierici che, chiamati dal Signore e
separati per aver parte con lui, sotto la vigilanza dei pastori si preparano
alle funzioni di sacri ministri, sono tenuti a conformare le loro menti e i
loro cuori a una così eccelsa vocazione; assidui nell'orazione, ferventi nella
carità, intenti a quanto è vero, giusto e onorevole, facendo tutto per la
gloria e l'onore di Dio. A questi bisogna aggiungere quei laici scelti da Dio,
i quali sono chiamati dal vescovo, perché si diano più completamente alle opere
apostoliche, e nel campo del Signore lavorano con molto frutto.
I coniugi e i genitori cristiani, seguendo la loro propria via, devono
sostenersi a vicenda nella fedeltà dell'amore con l'aiuto della grazia per
tutta la vita, e istruire nella dottrina cristiana e nelle virtù evangeliche la
prole, che hanno amorosamente accettata da Dio. Così infatti offrono a tutti
l'esempio di un amore instancabile e generoso, edificando la carità fraterna e
diventano testimoni e cooperatori della fecondità della madre Chiesa, in segno
e partecipazione di quell'amore, col quale Cristo amò la sua sposa e si è dato
per lei. Un simile esempio è offerto in altro modo dalle persone vedove e
celibatarie, le quali pure possono contribuire non poco alla santità e alla
operosità della Chiesa. Quelli poi che sono dediti a lavori spesso faticosi,
devono con le opere umane perfezionare se stessi, aiutare i concittadini e far
progredire tutta la società e la creazione verso uno stato migliore; devono
infine, con carità operosa, imitare Cristo, le cui mani si esercitarono in
lavori manuali e il quale sempre opera col Padre alla salvezza di tutti, in ciò
animati da una gioiosa speranza, aiutandosi gli uni gli altri a portare i
propri fardelli, ascendendo mediante il lavoro quotidiano a una santità sempre
più alta, santità che sarà anche apostolica.
Sappiano che sono pure uniti in modo speciale a Cristo sofferente per la salute
del mondo quelli che sono oppressi dalla povertà, dalla infermità, dalla
malattia e dalle varie tribolazioni, o soffrono persecuzioni per la giustizia:
il Signore nel Vangelo li ha proclamati beati, e “ il Dio... di ogni grazia,
che ci ha chiamati all'eterna sua gloria in Cristo Gesù, dopo un po' di patire,
li condurrà egli stesso a perfezione e li renderà stabili e sicuri” (1 Pt
5,10).
Tutti quelli che credono in Cristo saranno quindi ogni giorno più santificati
nelle condizioni, nei doveri o circostanze che sono quelle della loro vita, e
per mezzo di tutte queste cose, se le ricevono con fede dalla mano del Padre
celeste e cooperano con la volontà divina, manifestando a tutti, nello stesso
servizio temporale, la carità con la quale Dio ha amato il mondo.
Vie e mezzi di santità
42. “ Dio è amore e chi rimane nell'amore, rimane in Dio e Dio in lui ” (1 Gv
4,16). Dio ha diffuso il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito
Santo, che ci fu dato (cfr. Rm 5,5); perciò il dono primo e più necessario è la
carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di lui.
Ma perché la carità, come buon seme, cresca e nidifichi, ogni fedele deve
ascoltare volentieri la parola di Dio e con l'aiuto della sua grazia compiere
con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti,
soprattutto all'eucaristia, e alle azioni liturgiche; applicarsi costantemente
alla preghiera, all'abnegazione di se stesso, all'attivo servizio dei fratelli
e all'esercizio di tutte le virtù. La carità infatti, quale vincolo della
perfezione e compimento della legge (cfr. Col 3,14; Rm 13,10), regola tutti i
mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine. Perciò il
vero discepolo di Cristo è contrassegnato dalla carità verso Dio e verso il
prossimo.
Avendo Gesù, Figlio di Dio, manifestato la sua carità dando per noi la vita,
nessuno ha più grande amore di colui che dà la vita per lui e per i fratelli
(cfr. 1 Gv 3,16; Gv 15,13). Già fin dai primi tempi quindi, alcuni cristiani
sono stati chiamati, e altri lo saranno sempre, a rendere questa massima
testimonianza d'amore davanti agli uomini, e specialmente davanti ai
persecutori. Perciò il martirio, col quale il discepolo è reso simile al suo
maestro che liberamente accetta la morte per la salute del mondo, e col quale
diventa simile a lui nella effusione del sangue, è stimato dalla Chiesa come
dono insigne e suprema prova di carità. Ché se a pochi è concesso, tutti però
devono essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini e a seguirlo sulla
via della croce durante le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa.
Parimenti la santità della Chiesa è favorita in modo speciale dai molteplici
consigli che il Signore nel Vangelo propone all'osservanza dei suoi discepoli.
Tra essi eccelle il prezioso dono della grazia divina, dato dal Padre ad alcuni
(cfr, Mt 19,11; 1 Cor 7,7), di consacrarsi, più facilmente e senza divisione
del cuore (cfr. 1 Cor 7,7), a Dio solo nella verginità o nel celibato. Questa
perfetta continenza per il regno dei cieli è sempre stata tenuta in singolare
onore dalla Chiesa, quale segno e stimolo della carità e speciale sorgente di
fecondità spirituale nel mondo.
La Chiesa ripensa anche al monito dell'Apostolo, il quale incitando i fede]i
alla carità, ]i esorta ad avere in sé gli stessi sentimenti che furono in
Cristo Gesù, il quale “ spogliò se stesso, prendendo la natura di un servo...
facendosi obbediente fino alla morte ” (Fil 2,7-8), e per noi “da ricco che era
si fece povero ” (2 Cor 8,9). L'imitazione e la testimonianza di questa carità
e umiltà del Cristo si impongono ai discepoli in permanenza; per questo la Chiesa,
nostra madre, si rallegra di trovare nel suo seno molti uomini e donne che
seguono più da vicino questo annientamento del Salvatore e più chiaramente lo
mostrano, abbracciando, nella libertà dei figli di Dio, la povertà e
rinunziando alla propria volontà: essi cioè per amore di Dio, in ciò che
riguarda la perfezione, si sottomettono a una creatura umana al di là della
stretta misura del precetto, al fine di conformarsi più pienamente a Cristo
obbediente.
Tutti i fedeli del Cristo quindi sono invitati e tenuti a perseguire la santità
e la perfezione del proprio stato. Perciò tutti si sforzino di dirigere
rettamente i propri affetti, affinché dall'uso delle cose di questo mondo e da
un attaccamento alle ricchezze contrario allo spirito della povertà evangelica
non siano impediti di tendere alla carità perfetta; ammonisce infatti
l'Apostolo: Quelli che usano di questo mondo, non vi ci si arrestino, perché
passa la scena di questo mondo (cfr. 1 Cor 7,31 gr.).
CAPITOLO VI
I RELIGIOSI
I consigli evangelici nella Chiesa
43. I consigli evangelici della castità consacrata a Dio, della povertà e
dell'obbedienza, essendo fondati sulle parole e sugli esempi del Signore e
raccomandati dagli apostoli, dai Padri e dai dottori e pastori della Chiesa,
sono un dono divino che la Chiesa ha ricevuto dal suo Signore e con la sua
grazia sempre conserva. La stessa autorità della Chiesa, sotto la guida dello
Spirito Santo, si è data cura di interpretarli, di regolarne la pratica e anche
di stabilire sulla loro base delle forme stabili di vita. Avvenne quindi che,
come un albero che si ramifica in modi mirabili e molteplici nel campo del
Signore a partire da un germe seminato da Dio, si sviluppassero varie forme di
vita solitaria o comune e varie famiglie, il cui capitale spirituale
contribuisce al bene sia dei membri di quelle famiglie, sia di tutto il corpo
di Cristo. Quelle famiglie infatti forniscono ai loro membri gli aiuti di una
maggiore stabilità nella loro forma di vita, di una dottrina provata per il
conseguimento della perfezione, della comunione fraterna nella milizia di
Cristo, di una libertà corroborata dall'obbedienza, così che possano adempiere
con sicurezza e custodire con fedeltà la loro professione religiosa, avanzando
nella gioia spirituale sul cammino della carità.
Un simile stato, se si riguardi la divina e gerarchica costituzione della
Chiesa, non è intermedio tra la condizione clericale e laicale, ma da entrambe
le parti alcuni fedeli sono chiamati da Dio a fruire di questo speciale dono
nella vita della Chiesa e ad aiutare, ciascuno a suo modo, la sua missione
salvifica.
Natura e importanza dello stato religioso
44. Con i voti o altri impegni sacri simili ai voti secondo il modo loro
proprio, il fedele si obbliga all'osservanza dei tre predetti consigli
evangelici; egli si dona totalmente a Dio amato al di sopra di tutto, così da
essere con nuovo e speciale titolo destinato al servizio e all'onore di Dio.
Già col battesimo è morto al peccato e consacrato a Dio; ma per poter
raccogliere in più grande abbondanza i frutti della grazia battesimale, con la
professione dei consigli evangelici nella Chiesa intende liberarsi dagli
impedimenti che potrebbero distoglierlo dal fervore della carità e dalla
perfezione del culto divino, e si consacra più intimamente al servizio di Dio.
La consacrazione poi sarà più perfetta, in quanto legami più solidi e stabili
riproducono di più l'immagine del Cristo unito alla Chiesa sua sposa da un
legame indissolubile.
Siccome quindi i consigli evangelici, per mezzo della carità alla quale
conducono congiungono in modo speciale coloro che li praticano alla Chiesa e al
suo mistero, la loro vita spirituale deve pure essere consacrata al bene di
tutta la Chiesa. Di qui deriva il dovere di lavorare, secondo le forze e la
forma della propria vocazione, sia con la preghiera, sia anche con l'attività
effettiva, a radicare e consolidare negli animi il regno di Cristo e a
dilatarlo in ogni parte della terra. Per questo la Chiesa difende e sostiene
l'indole propria dei vari istituti religiosi. Perciò la professione dei
consigli evangelici appare come un segno, il quale può e deve attirare
efficacemente tutti i membri della Chiesa a compiere con slancio i doveri della
vocazione cristiana. Poiché infatti il popolo di Dio non ha qui città permanente,
ma va in cerca della futura, lo stato religioso, il quale rende più liberi i
suoi seguaci dalle cure terrene, meglio anche manifesta a tutti i credenti i
beni celesti già presenti in questo tempo, meglio testimonia l'esistenza di una
vita nuova ed eterna, acquistata dalla redenzione di Cristo, e meglio
preannunzia la futura resurrezione e la gloria del regno celeste. Parimenti, lo
stato religioso imita più fedelmente e rappresenta continuamente nella Chiesa
la forma di vita che il Figlio di Dio abbracciò venendo nel mondo per fare la
volontà del Padre e che propose ai discepoli che lo seguivano. Infine, in modo
speciale manifesta l'elevazione del regno di Dio sopra tutte le cose terrestri
e le sue esigenze supreme; dimostra pure a tutti gli uomini la preminente
grandezza della potenza di Cristo-Re e la infinita potenza dello Spirito Santo,
mirabilmente operante nella Chiesa.
Lo stato di vita dunque costituito dalla professione dei consigli evangelici,
pur non concernendo la struttura gerarchica della Chiesa, appartiene tuttavia
inseparabilmente alla sua vita e alla sua santità.
La gerarchia e lo stato religioso
45. Essendo ufficio della gerarchia ecclesiastica di pascere il popolo di Dio e
condurlo a pascoli ubertosi (cfr. Ez 34,14), spetta ad essa di regolare
sapientemente con le sue leggi la pratica dei consigli evangelici, strumento
singolare al servizio della carità perfetta verso Dio e verso il prossimo 6,
Essa inoltre, seguendo docilmente gli impulsi dello Spirito Santo, accoglie le
regole proposte da uomini e donne esimi, e, infine dopo averle messe a punto
più perfettamente, dà loro una approvazione autentica; con la sua autorità
vigile e protettrice viene pure in aiuto agli istituti, dovunque eretti per
l'edificazione del corpo di Cristo, perché abbiano a crescere e fiorire secondo
lo spirito dei fondatori.
Perché poi sia provveduto il meglio possibile alle necessità dell'intero gregge
del Signore, il sommo Pontefice può, in ragione del suo primato sulla Chiesa
universale e in vista dell'interesse comune esentare ogni istituto di
perfezione e ciascuno dei suoi membri dalla giurisdizione dell'ordinario del
luogo e sottoporli a sé solo. Similmente essi possono essere lasciati o
affidati alle proprie autorità patriarcali. Da parte loro i membri nel compiere
i loro doveri verso la Chiesa secondo la loro forma particolare di vita,
devono, conforme alle leggi canoniche, prestare riverenza e obbedienza ai
vescovi, a causa della loro autorità pastorale nelle Chiese particolari e per
la necessaria unità e concordia nel lavoro apostolico.
La Chiesa non solo erige con la sua sanzione la professione religiosa alla
dignità dello stato canonico, ma con la sua azione liturgica la presenta pure
come stato di consacrazione a Dio. La stessa Chiesa infatti, in nome
dell'autorità affidatagli da Dio, riceve i voti di quelli che fanno la
professione, per loro impetra da Dio gli aiuti e la grazia con la sua preghiera
pubblica, li raccomanda a Dio e impartisce loro una benedizione spirituale,
associando la loro offerta al sacrificio eucaristico.
Grandezza della consacrazione religiosa
46. I religiosi pongano ogni cura, affinché per loro mezzo la Chiesa abbia ogni
giorno meglio da presentare Cristo ai fedeli e agli infedeli: sia nella sua
contemplazione sul monte, sia nel suo annuncio del regno di Dio alle turbe, sia
quando risana i malati e gli infermi e converte a miglior vita i peccatori, sia
quando benedice i fanciulli e fa del bene a tutti, sempre obbediente alla
volontà del Padre che lo ha mandato.
Tutti infine abbiano ben chiaro che la professione dei consigli evangelici,
quantunque comporti la rinunzia di beni certamente molto apprezzabili, non si
oppone al vero progresso della persona umana, ma al contrario per sua natura le
è di grandissimo profitto. Infatti i consigli, volontariamente abbracciati
secondo la personale vocazione di ognuno, contribuiscono considerevolmente alla
purificazione del cuore e alla libertà spirituale, stimolano in permanenza il
fervore della carità e soprattutto come è comprovato dall'esempio di tanti
santi fondatori, sono capaci di assicurare al cristiano una conformità più
grande col genere di vita verginale e povera che Cristo Signore si scelse per
sé e che la vergine Madre sua abbracciò. Né pensi alcuno che i religiosi con la
loro consacrazione diventino estranei agli uomini o inutili nella città
terrestre. Poiché, se anche talora non sono direttamente presenti a fianco dei
loro contemporanei, li tengono tuttavia presenti in modo più profondo con la
tenerezza di Cristo, e con essi collaborano spiritualmente, affinché la
edificazione della città terrena sia sempre fondata nel Signore, e a lui
diretta, né avvenga che lavorino invano quelli che la stanno edificando.
Perciò il sacro Concilio conferma e loda quegli uomini e quelle donne, quei
fratelli e quelle sorelle, i quali nei monasteri, nelle scuole, negli ospedali
e nelle missioni, con perseverante e umile fedeltà alla loro consacrazione,
onorano la sposa di Cristo e a tutti gli uomini prestano generosi e
diversissimi servizi.
Esortazione alla perseveranza
47. Ognuno poi che è chiamato alla professione dei consigli, ponga ogni cura
nel perseverare e maggiormente eccellere nella vocazione a cui Dio l'ha
chiamato, per una più grande santità della Chiesa e per la maggior gloria della
Trinità, una e indivisa, la quale in Cristo e per mezzo di Cristo è la fonte e
l'origine di ogni santità.
CAPITOLO VII
INDOLE ESCATOLOGICA DELLA CHIESA PEREGRINANTE
E SUA UNIONE CON LA CHIESA CELESTE
Natura escatologica della nostra vocazione
48. La Chiesa, alla quale tutti siamo chiamati in Cristo Gesù e nella quale per
mezzo della grazia di Dio acquistiamo la santità, non avrà il suo compimento se
non nella gloria celeste, quando verrà il tempo in cui tutte le cose saranno
rinnovate (cfr. Ap 3,21), e col genere umano anche tutto l'universo, il quale è
intimamente congiunto con l'uomo e per mezzo di lui arriva al suo fine, troverà
nel Cristo la sua definitiva perfezione (cfr. Ef 1,10; Col 1,20).
E invero il Cristo, quando fu levato in alto da terra, attirò tutti a sé (cfr.
Gv 12,32 gr.); risorgendo dai morti (cfr. Rm 6,9) immise negli apostoli il suo
Spirito vivificatore, e per mezzo di lui costituì il suo corpo, che è la
Chiesa, quale sacramento universale della salvezza; assiso alla destra del
Padre, opera continuamente nel mondo per condurre gli uomini alla Chiesa e
attraverso di essa congiungerli più strettamente a sé e renderli partecipi
della sua vita gloriosa col nutrimento del proprio corpo e del proprio sangue.
Quindi la nuova condizione promessa e sperata è già incominciata con Cristo;
l'invio dello Spirito Santo le ha dato il suo slancio e per mezzo di lui essa
continua nella Chiesa, nella quale siamo dalla fede istruiti anche sul senso
della nostra vita temporale, mentre portiamo a termine, nella speranza dei beni
futuri, l'opera a noi affidata nel mondo dal Padre e attuiamo così la nostra
salvezza (cfr. Fil 2,12).
Già dunque è arrivata a noi l'ultima fase dei tempi (cfr. 1 Cor 10,11). La
rinnovazione del mondo è irrevocabilmente acquisita e in certo modo reale è
anticipata in questo mondo: difatti la Chiesa già sulla terra è adornata di
vera santità, anche se imperfetta. Tuttavia, fino a che non vi saranno i nuovi
cieli e la terra nuova, nei quali la giustizia ha la sua dimora (cfr. 2 Pt 3,13),
la Chiesa peregrinante nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che
appartengono all'età presente, porta la figura fugace di questo mondo; essa
vive tra le creature, le quali ancora gemono, sono nel travaglio del parto e
sospirano la manifestazione dei figli di Dio (cfr. Rm 8,19-22).
Congiunti dunque con Cristo nella Chiesa e contrassegnati dallo Spirito Santo “
che è il pegno della nostra eredità ” (Ef 1,14), con verità siamo chiamati
figli di Dio, e lo siamo veramente (cfr. 1 Gv 3,1), ma non siamo ancora apparsi
con Cristo nella gloria (cfr. Col 3,4), nella quale saremo simili a Dio, perché
lo vedremo qual è (cfr. 1 Gv 3,2). Pertanto, “ finché abitiamo in questo corpo
siamo esuli lontani dal Signore ” (2 Cor 5,6); avendo le primizie dello
Spirito, gemiamo interiormente (cfr. Rm 8,23) e bramiamo di essere con Cristo
(cfr. Fil 1,23). Dalla stessa carità siamo spronati a vivere più intensamente
per lui, il quale per noi è morto e risuscitato (cfr. 2 Cor 5,15). E per questo
ci sforziamo di essere in tutto graditi al Signore (cfr. 2 Cor 5,9) e
indossiamo l'armatura di Dio per potere star saldi contro gli agguati del
diavolo e resistergli nel giorno cattivo (cfr. Ef 6,11-13). Siccome poi non
conosciamo il giorno né l'ora, bisogna che, seguendo l'avvertimento del
Signore, vegliamo assiduamente, per meritare, finito il corso irrepetibile
della nostra vita terrena (cfr.Eb 9,27), di entrare con lui al banchetto
nuziale ed essere annoverati fra i beati (cfr. Mt 25,31-46), e non ci venga
comandato, come a servi cattivi e pigri (cfr. Mt 25,26), di andare al fuoco
eterno (cfr Mt 25,41), nelle tenebre esteriori dove “ci sarà pianto e stridore
dei denti ” (Mt 22,13 e 25,30). Prima infatti di regnare con Cristo glorioso,
noi tutti compariremo “ davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno
il salario della sua vita mortale, secondo quel che avrà fatto di bene o di
male ” (2 Cor 5,10), e alla fine del mondo “ usciranno dalla tomba, chi ha
operato il bene a risurrezione di vita, e chi ha operato il male a risurrezione
di condanna ” (Gv 5,29, cfr Mt 25,46). Stimando quindi che “ le sofferenze dei
tempo presente non sono adeguate alla gloria futura che si dovrà manifestare in
noi” (Rm 8,18; cfr 2 Tm 2,11-12), forti nella fede aspettiamo “la beata
speranza e la manifestazione gloriosa del nostro grande Iddio e Salvatore Gesù
Cristo” (Tt 2,13) “ il quale trasformerà allora il nostro misero corpo,
rendendolo conforme al suo corpo glorioso” (Fil 3,21), e verrà “per essere
glorificato nei suoi santi e ammirato in tutti quelli che avranno creduto ”.
La Chiesa celeste e la Chiesa peregrinante
49. Fino a che dunque il Signore non verrà nella sua gloria, accompagnato da
tutti i suoi angeli (cfr. Mt 25,31) e, distrutta la morte, non gli saranno
sottomesse tutte le cose (cfr. 1 Cor 15,26-27), alcuni dei suoi discepoli sono
pellegrini sulla terra, altri, compiuta questa vita, si purificano ancora,
altri infine godono della gloria contemplando “ chiaramente Dio uno e trino,
qual è ”. Tutti però, sebbene in grado e modo diverso, comunichiamo nella
stessa carità verso Dio e verso il prossimo e cantiamo al nostro Dio lo stesso
inno di gloria. Tutti infatti quelli che sono di Cristo, avendo lo Spirito
Santo, formano una sola Chiesa e sono tra loro uniti in lui (cfr. Ef 4,16).
L'unione quindi di quelli che sono ancora in cammino coi fratelli morti nella
pace di Cristo non è minimamente spezzata; anzi, secondo la perenne fede della
Chiesa, è consolidata dallo scambio dei beni spirituali. A causa infatti della
loro più intima unione con Cristo, gli abitanti del cielo rinsaldano tutta la
Chiesa nella santità, nobilitano il culto che essa rende a Dio qui in terra e
in molteplici maniere contribuiscono ad una più ampia edificazione (cfr. 1 Cor
12,12-27). Ammessi nella patria e presenti al Signore (cfr. 2 Cor 5,8), per
mezzo di lui, con lui e in lui non cessano di intercedere per noi presso il
Padre offrendo i meriti acquistati in terra mediante Gesù Cristo, unico
mediatore tra Dio e gli uomini (cfr. 1 Tm 2,5), servendo al Signore in ogni
cosa e dando compimento nella loro carne a ciò che manca alle tribolazioni di
Cristo a vantaggio del suo corpo che è la Chiesa (cfr. Col 1,24). La nostra
debolezza quindi è molto aiutata dalla loro fraterna sollecitudine.
Relazioni della Chiesa celeste con la Chiesa peregrinante
50. La Chiesa di coloro che camminano sulla terra, riconoscendo benissimo
questa comunione di tutto il corpo mistico di Gesù Cristo, fino dai primi tempi
della religione cristiana coltivò con grande pietà la memoria dei defunti e,
“poiché santo e salutare è il pensiero di pregare per i defunti perché siano
assolti dai peccati”, ha offerto per loro anche suffragi. Che gli apostoli e i
martiri di Cristo, i quali con l'effusione del loro sangue diedero la suprema
testimonianza della fede e della carità, siano con noi strettamente uniti in
Cristo, la Chiesa lo ha sempre creduto; li ha venerati con particolare affetto
insieme con la beata vergine Maria e i santi angeli e ha piamente implorato il
soccorso della loro intercessione. A questi in breve se ne aggiunsero anche
altri, che avevano più da vicino imitata la verginità e la povertà di Cristo e
infine altri, il cui singolare esercizio delle virtù cristiane e le grazie
insigni di Dio raccomandavano alla pia devozione e imitazione dei fedeli.
Il contemplare infatti la vita di coloro che hanno seguito fedelmente Cristo, è
un motivo in più per sentirsi spinti a ricercare la città futura (cfr. Eb 13,14
e 11,10); nello stesso tempo impariamo la via sicurissima per la quale, tra le
mutevoli cose del mondo e secondo lo stato e la condizione propria di ciascuno,
potremo arrivare alla perfetta unione con Cristo, cioè alla santità. Nella vita
di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia più
perfettamente trasformati nell'immagine di Cristo (cfr. 2 Cor 3,18), Dio
manifesta agli uomini in una viva luce la sua presenza e il suo volto. In loro
è egli stesso che ci parla e ci dà un segno del suo regno verso il quale,
avendo intorno a noi un tal nugolo di testimoni (cfr. Eb 12,1) e una tale
affermazione della verità del Vangelo, siamo potentemente attirati.
Non veneriamo però la memoria degli abitanti del cielo solo per il loro
esempio, ma più ancora perché l'unione della Chiesa nello Spirito sia
consolidata dall'esercizio della fraterna carità (cfr. Ef 4,1-6). Poiché, come
la cristiana comunione tra i cristiani della terra ci porta più vicino a
Cristo, così la comunità con i santi ci congiunge a lui, dal quale, come dalla
loro fonte e dal loro capo, promana ogni grazia e la vita dello stesso popolo
di Dio. È quindi sommamente giusto che amiamo questi amici e coeredi di Gesù
Cristo, che sono anche nostri fratelli e insigni benefattori, e che per essi
rendiamo le dovute grazie a Dio, “rivolgiamo loro supplici invocazioni e
ricorriamo alle loro preghiere e al loro potente aiuto per impetrare grazie da
Dio mediante il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro, il quale solo è il
nostro Redentore e Salvatore ”. Infatti ogni nostra vera attestazione di amore
fatta ai santi, per sua natura tende e termina a Cristo, che è “ la corona di
tutti i santi ” e per lui a Dio, che è mirabile nei suoi santi e in essi è
glorificato.
La nostra unione poi con la Chiesa celeste si attua in maniera nobilissima,
poiché specialmente nella sacra liturgia, nella quale la virtù dello Spirito
Santo agisce su di noi mediante i segni sacramentali, in fraterna esultanza
cantiamo le lodi della divina Maestà tutti, di ogni tribù e lingua, di ogni
popolo e nazione, riscattati col sangue di Cristo (cfr. Ap 5,9) e radunati in
un'unica Chiesa, con un unico canto di lode glorifichiamo Dio uno in tre
Persone Perciò quando celebriamo il sacrificio eucaristico, ci uniamo in sommo
grado al culto della Chiesa celeste, comunicando con essa e venerando la
memoria soprattutto della gloriosa sempre vergine Maria, del beato Giuseppe,
dei beati apostoli e martiri e di tutti i santi.
Disposizioni pastorali del Concilio
51. Questa veneranda fede dei nostri padri nella comunione di vita che esiste
con i fratelli che sono nella gloria celeste o che dopo la morte stanno ancora
purificandosi, questo sacrosanto Concilio la riceve con grande pietà e
nuovamente propone i decreti dei sacri Concili Niceno II Fiorentino e
Tridentino. E allo stesso tempo con pastorale sollecitudine esorta tutti i responsabili,
perché, se si fossero infiltrati qua e là abusi, eccessi o difetti, si
adoperino per toglierli o correggerli e tutto ristabiliscano per una più piena
lode di Cristo e di Dio. Insegnino dunque ai fedeli che il vero culto dei santi
non consiste tanto nel moltiplicare gli atti esteriori, quanto piuttosto
nell'intensità del nostro amore fattivo, col quale, per il maggiore bene nostro
e della Chiesa, cerchiamo “dalla vita dei santi l'esempio, dalla comunione con
loro la partecipazione alla loro sorte e dalla loro intercessione l'aiuto”. E
d'altra parte insegnino ai fedeli che il nostro rapporto con gli abitanti del
cielo, purché lo si concepisca alla piena luce della fede, non diminuisce
affatto il culto di adorazione reso a Dio Padre mediante Cristo nello Spirito,
ma anzi lo arricchisce.
Tutti quanti infatti, noi che siamo figli di Dio e costituiamo in Cristo una
sola famiglia (cfr. Eb 3), mentre comunichiamo tra noi nella mutua carità e
nell'unica lode della Trinità santissima, rispondiamo all'intima vocazione
della Chiesa e pregustando partecipiamo alla liturgia della gloria perfetta.
Poiché quando Cristo apparirà e vi sarà la gloriosa risurrezione dei morti, lo
splendore di Dio illuminerà la città celeste e la sua lucerna sarà l'Agnello
(cfr. Ap 21,24). Allora tutta la Chiesa dei santi con somma felicità di amore
adorerà Dio e “l'Agnello che è stato ucciso” (Ap 5,12), proclamando a una voce:
“A colui che siede sul trono e all'Agnello, benedizione onore, gloria e dominio
per tutti i secoli dei secoli ” (Ap 5,13-14).
CAPITOLO VIII
LA BEATA MARIA VERGINE MADRE DI DIO
NEL MISTERO DI CRISTO E DELLA CHIESA
I. Proemio
52. Volendo Dio misericordiosissimo e sapientissimo compiere la redenzione del
mondo, “ quando venne la pienezza dei tempi, mandò il suo Figlio, nato da una
donna... per fare di noi dei figli adottivi” (Gal 4,4-5), “ Egli per noi uomini
e per la nostra salvezza è disceso dal cielo e si è incarnato per opera dello
Spirito Santo da Maria vergine ”. Questo divino mistero di salvezza ci è rivelato
e si continua nella Chiesa, che il Signore ha costituita quale suo corpo e
nella quale i fedeli, aderendo a Cristo capo e in comunione con tutti i suoi
santi, devono pure venerare la memoria “innanzi tutto della gloriosa sempre
vergine Maria, madre del Dio e Signore nostro Gesù Cristo ”
Maria e la Chiesa
53. Infatti Maria vergine, la quale all'annunzio dell'angelo accolse nel cuore
e nel corpo il Verbo di Dio e portò la vita al mondo, è riconosciuta e onorata
come vera madre di Dio e Redentore. Redenta in modo eminente in vista dei
meriti del Figlio suo e a lui unita da uno stretto e indissolubile vincolo, è
insignita del sommo ufficio e dignità di madre del Figlio di Dio, ed è perciò
figlia prediletta del Padre e tempio dello Spirito Santo; per il quale dono di
grazia eccezionale precede di gran lunga tutte le altre creature, celesti e
terrestri. Insieme però, quale discendente di Adamo, è congiunta con tutti gli
uomini bisognosi di salvezza; anzi, è “ veramente madre delle membra (di
Cristo)... perché cooperò con la carità alla nascita dei fedeli della Chiesa, i
quali di quel capo sono le membra ”. Per questo è anche riconosciuta quale
sovreminente e del tutto singolare membro della Chiesa, figura ed
eccellentissimo modello per essa nella fede e nella carità; e la Chiesa
cattolica, istruita dallo Spirito Santo, con affetto di pietà filiale la venera
come madre amatissima.
L'intenzione del Concilio
54. Perciò il santo Concilio, mentre espone la dottrina riguardante la Chiesa,
nella quale il divino Redentore opera la salvezza, intende illustrare
attentamente da una parte, la funzione della beata Vergine nel mistero del
Verbo incarnato e del corpo mistico, dall'altra i doveri degli uomini, e i
doveri dei credenti in primo luogo. Il Concilio tuttavia non ha in animo di
proporre una dottrina esauriente su Maria, né di dirimere le questioni che il
lavoro dei teologi non ha ancora condotto a una luce totale. Permangono quindi
nel loro diritto le sentenze, che nelle scuole cattoliche vengono liberamente
proposte circa colei, che nella Chiesa santa occupa, dopo Cristo, il posto più
alto e il più vicino a noi 4.
II. Funzione della beata Vergine nell'economia della salvezza
La madre del Messia nell'Antico Testamento
55. I libri del Vecchio e Nuovo Testamento e la veneranda tradizione mostrano
in modo sempre più chiaro la funzione della madre del Salvatore nella economia
della salvezza e la propongono per così dire alla nostra contemplazione. I
libri del Vecchio Testamento descrivono la storia della salvezza, nella quale
lentamente viene preparandosi la venuta di Cristo nel mondo. Questi documenti
primitivi, come sono letti nella Chiesa e sono capiti alla luce dell'ulteriore
e piena rivelazione, passo passo mettono sempre più chiaramente in luce la
figura di una donna: la madre del Redentore. Sotto questa luce essa viene già
profeticamente adombrata nella promessa, fatta ai progenitori caduti in
peccato, circa la vittoria sul serpente (cfr. Gen 3,15). Parimenti, è lei, la
Vergine, che concepirà e partorirà un Figlio, il cui nome sarà Emanuele (cfr.
Is 7, 14; Mt 1,22-23). Essa primeggia tra quegli umili e quei poveri del
Signore che con fiducia attendono e ricevono da lui la salvezza. E infine con
lei, la figlia di Sion per eccellenza, dopo la lunga attesa della promessa, si
compiono i tempi e si instaura la nuova “ economia ”, quando il Figlio di Dio
assunse da lei la natura umana per liberare l'uomo dal peccato coi misteri
della sua carne.
Maria nell'annunciazione
56. Il Padre delle misericordie ha voluto che l'accettazione da parte della
predestinata madre precedesse l'incarnazione, perché così, come una donna aveva
contribuito a dare la morte, una donna contribuisse a dare la vita. Ciò vale in
modo straordinario della madre di Gesù, la quale ha dato al mondo la vita
stessa che tutto rinnova e da Dio è stata arricchita di doni consoni a tanto
ufficio. Nessuna meraviglia quindi se presso i santi Padri invalse l'uso di
chiamare la madre di Dio la tutta santa e immune da ogni macchia di peccato,
quasi plasmata dallo Spirito Santo e resa nuova creatura. Adornata fin dal
primo istante della sua concezione dagli splendori di una santità del tutto
singolare, la Vergine di Nazaret è salutata dall'angelo dell'annunciazione, che
parla per ordine di Dio, quale “ piena di grazia ” (cfr. Lc 1,28) e al celeste
messaggero essa risponde “ Ecco l'ancella del Signore: si faccia in me secondo
la tua parola ” (Lc 1,38). Così Maria, figlia di Adamo, acconsentendo alla
parola divina, diventò madre di Gesù, e abbracciando con tutto l'animo, senza
che alcun peccato la trattenesse, la volontà divina di salvezza, consacrò
totalmente se stessa quale ancella del Signore alla persona e all'opera del
Figlio suo, servendo al mistero della redenzione in dipendenza da lui e con
lui, con la grazia di Dio onnipotente. Giustamente quindi i santi Padri
ritengono che Maria non fu strumento meramente passivo nelle mani di Dio, ma
che cooperò alla salvezza dell'uomo con libera fede e obbedienza. Infatti, come
dice Sant'Ireneo, essa “con la sua obbedienza divenne causa di salvezza per sé
e per tutto il genere umano ”. Onde non pochi antichi Padri nella loro
predicazione volentieri affermano con Ireneo che “ il nodo della disobbedienza
di Eva ha avuto la sua soluzione coll'obbedienza di Maria; ciò che la vergine Eva
legò con la sua incredulità, la vergine Maria sciolse con la sua fede” e, fatto
il paragone con Eva, chiamano Maria “madre dei viventi e affermano spesso: “ la
morte per mezzo di Eva, la vita per mezzo di Maria ”.
Maria e l'infanzia di Gesù
57. Questa unione della madre col figlio nell'opera della redenzione si
manifesta dal momento della concezione verginale di Cristo fino alla morte di
lui; e prima di tutto quando Maria, partendo in fretta per visitare Elisabetta,
è da questa proclamata beata per la sua fede nella salvezza promessa, mentre il
precursore esultava nel seno della madre (cfr. Lc 1,41-45); nella natività,
poi, quando la madre di Dio mostrò lieta ai pastori e ai magi il Figlio suo
primogenito, il quale non diminuì la sua verginale integrità, ma la consacrò l0
Quando poi lo presentò al Signore nel tempio con l'offerta del dono proprio dei
poveri, udì Simeone profetizzare che il Figlio sarebbe divenuto segno di
contraddizione e che una spada avrebbe trafitto l'anima della madre, perché
fossero svelati i pensieri di molti cuori (cfr. Lc 2,34-35). Infine, dopo avere
perduto il fanciullo Gesù e averlo cercato con angoscia, i suoi genitori lo
trovarono nel tempio occupato nelle cose del Padre suo, e non compresero le sue
parole. E la madre sua conservava tutte queste cose in cuor suo e le meditava
(cfr. Lc 2,41-51).
Maria e la vita pubblica di Gesù
58. Nella vita pubblica di Gesù la madre sua appare distintamente fin da
principio, quando alle nozze in Cana di Galilea, mossa a compassione, indusse con
la sua intercessione Gesù Messia a dar inizio ai miracoli (cfr. Gv 2 1-11).
Durante la predicazione di lui raccolse le parole con le quali egli, mettendo
il Regno al di sopra delle considerazioni e dei vincoli della carne e del
sangue, proclamò beati quelli che ascoltano e custodiscono la parola di Dio
(cfr Mc 3,35; Lc 11,27-28), come ella stessa fedelmente faceva (cfr. Lc 2,19 e
51). Così anche la beata Vergine avanzò nella peregrinazione della fede e serbò
fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce, dove, non senza un disegno
divino, se ne stette (cfr. Gv 19,25), soffrendo profondamente col suo Unigenito
e associandosi con animo materno al suo sacrifico, amorosamente consenziente
all'immolazione della vittima da lei generata; e finalmente dallo stesso Gesù
morente in croce fu data quale madre al discepolo con queste parole: Donna,
ecco tuo figlio (cfr. Gv 19,26-27).
Maria dopo l'ascensione
59. Essendo piaciuto a Dio di non manifestare apertamente il mistero della
salvezza umana prima di effondere lo Spirito promesso da Cristo, vediamo gli
apostoli prima del giorno della Pentecoste “ perseveranti d'un sol cuore nella
preghiera con le donne e Maria madre di Gesù e i suoi fratelli” (At 1,14); e
vediamo anche Maria implorare con le sue preghiere il dono dello Spirito che
all'annunciazione, l'aveva presa sotto la sua ombra. Infine la Vergine
immacolata, preservata immune da ogni macchia di colpa originale finito il
corso della sua vita terrena, fu assunta alla celeste gloria in anima e corpo e
dal Signore esaltata quale regina dell'universo per essere così più pienamente
conforme al figlio suo, Signore dei signori (cfr. Ap 19,16) e vincitore del
peccato e della morte.
III. La beata Vergine e la Chiesa
Maria e Cristo unico mediatore
60. Uno solo è il nostro mediatore, secondo le parole dell'Apostolo: “ Poiché
non vi è che un solo Dio, uno solo è anche il mediatore tra Dio e gli uomini,
l'uomo Cristo Gesù, che per tutti ha dato se stesso in riscatto ” (1 Tm 2,5-6).
La funzione materna di Maria verso gli uomini in nessun modo oscura o
diminuisce questa unica mediazione di Cristo, ma ne mostra l'efficacia. Ogni
salutare influsso della beata Vergine verso gli uomini non nasce da una
necessità oggettiva, ma da una disposizione puramente gratuita di Dio, e sgorga
dalla sovrabbondanza dei meriti di Cristo; pertanto si fonda sulla mediazione
di questi, da essa assolutamente dipende e attinge tutta la sua efficacia, e
non impedisce minimamente l'unione immediata dei credenti con Cristo, anzi la
facilita.
Cooperazione alla redenzione
61. La beata Vergine, predestinata fino dall'eternità, all'interno del disegno
d'incarnazione del Verbo, per essere la madre di Dio, per disposizione della
divina Provvidenza fu su questa terra l'alma madre del divino Redentore, generosamente
associata alla sua opera a un titolo assolutamente unico, e umile ancella del
Signore, concependo Cristo, generandolo, nutrendolo, presentandolo al Padre nel
tempio, soffrendo col Figlio suo morente in croce, ella cooperò in modo tutto
speciale all'opera del Salvatore, coll'obbedienza, la fede, la speranza e
l'ardente carità, per restaurare la vita soprannaturale delle anime. Per questo
ella è diventata per noi madre nell'ordine della grazia.
Funzione salvifíca subordinata
62. E questa maternità di Maria nell'economia della grazia perdura senza soste
dal momento del consenso fedelmente prestato nell'Annunciazione e mantenuto
senza esitazioni sotto la croce, fino al perpetuo coronamento di tutti gli
eletti. Difatti anche dopo la sua assunzione in cielo non ha interrotto questa
funzione salvifica, ma con la sua molteplice intercessione continua a ottenerci
i doni che ci assicurano la nostra salvezza eterna. Con la sua materna carità
si prende cura dei fratelli del Figlio suo ancora peregrinanti e posti in mezzo
a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria beata. Per
questo la beata Vergine è invocata nella Chiesa con i titoli di avvocata,
ausiliatrice, soccorritrice, mediatrice. Ciò però va inteso in modo che nulla
sia detratto o aggiunto alla dignità e alla efficacia di Cristo, unico
mediatore.
Nessuna creatura infatti può mai essere paragonata col Verbo incarnato e
redentore. Ma come il sacerdozio di Cristo è in vari modi partecipato, tanto
dai sacri ministri, quanto dal popolo fedele, e come l'unica bontà di Dio è
realmente diffusa in vari modi nelle creature, così anche l'unica mediazione
del Redentore non esclude, bensì suscita nelle creature una varia cooperazione
partecipata da un'unica fonte.
E questa funzione subordinata di Maria la Chiesa non dubita di riconoscerla
apertamente; essa non cessa di farne l'esperienza e la raccomanda all'amore dei
fedeli, perché, sostenuti da questo materno aiuto, siano più intimamente
congiunti col Mediatore e Salvatore.
Maria vergine e madre, modello della Chiesa
63. La beata Vergine, per il dono e l'ufficio della divina maternità che la
unisce col Figlio redentore e per le sue singolari grazie e funzioni, è pure
intimamente congiunta con la Chiesa: la madre di Dio è figura della Chiesa,
come già insegnava sant'Ambrogio, nell'ordine cioè della fede, della carità e
della perfetta unione con Cristo. Infatti nel mistero della Chiesa, la quale
pure è giustamente chiamata madre e vergine, la beata vergine Maria occupa il
primo posto, presentandosi in modo eminente e singolare quale vergine e quale
madre. Ciò perché per la sua fede ed obbedienza generò sulla terra lo stesso
Figlio di Dio, senza contatto con uomo, ma adombrata dallo Spirito Santo, come
una nuova Eva credendo non all'antico serpente, ma, senza alcuna esitazione, al
messaggero di Dio. Diede poi alla luce il Figlio, che Dio ha posto quale
primogenito tra i molti fratelli (cfr. Rm 8,29), cioè tra i credenti, alla
rigenerazione e formazione dei quali essa coopera con amore di madre.
La Chiesa vergine e madre
64. Orbene, la Chiesa contemplando la santità misteriosa della Vergine,
imitandone la carità e adempiendo fedelmente la volontà del Padre, per mezzo
della parola di Dio accolta con fedeltà diventa essa pure madre, poiché con la
predicazione e il battesimo genera a una vita nuova e immortale i figli,
concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio. Essa pure è vergine, che
custodisce integra e pura la fede data allo sposo; imitando la madre del suo
Signore, con la virtù dello Spirito Santo conserva verginalmente integra la
fede, salda la speranza, sincera la carità.
La Chiesa deve imitare la virtù di Maria
65. Mentre la Chiesa ha già raggiunto nella beatissima Vergine quella
perfezione, che la rende senza macchia e senza ruga (cfr. Ef 5,27), i fedeli
del Cristo si sforzano ancora di crescere nella santità per la vittoria sul
peccato; e per questo innalzano gli occhi a Maria, la quale rifulge come
modello di virtù davanti a tutta la comunità degli eletti. La Chiesa, raccogliendosi
con pietà nel pensiero di Maria, che contempla alla luce del Verbo fatto uomo,
con venerazione penetra più profondamente nel supremo mistero dell'incarnazione
e si va ognor più conformando col suo sposo. Maria infatti, la quale, per la
sua intima partecipazione alla storia della salvezza, riunisce per cosi dire e
riverbera le esigenze supreme della fede, quando è fatta oggetto della
predicazione e della venerazione chiama i credenti al Figlio suo, al suo
sacrificio e all'amore del Padre. A sua volta la Chiesa, mentre ricerca la
gloria di Cristo, diventa più simile al suo grande modello, progredendo
continuamente nella fede, speranza e carità e in ogni cosa cercando e compiendo
la divina volontà. Onde anche nella sua opera apostolica la Chiesa giustamente
guarda a colei che generò il Cristo, concepito appunto dallo Spirito Santo e
nato dalla Vergine per nascere e crescere anche nel cuore dei fedeli per mezzo
della Chiesa. La Vergine infatti nella sua vita fu modello di quell'amore
materno da cui devono essere animati tutti quelli che nella missione apostolica
della Chiesa cooperano alla rigenerazione degli uomini.
IV. Il culto della beata Vergine nella Chiesa
Natura e fondamento del culto
66. Maria, perché madre santissima di Dio presente ai misteri di Cristo, per
grazia di Dio esaltata, al di sotto del Figlio, sopra tutti gli angeli e gli
uomini, viene dalla Chiesa giustamente onorata con culto speciale. E di fatto,
già fino dai tempi più antichi, la beata Vergine è venerata col titolo di “
madre di Dio ” e i fedeli si rifugiano sotto la sua protezione, implorandola in
tutti i loro pericoli e le loro necessita. Soprattutto a partire dal Concilio
di Efeso il culto del popolo di Dio verso Maria crebbe mirabilmente in
venerazione e amore, in preghiera e imitazione, secondo le sue stesse parole
profetiche: “Tutte le generazioni mi chiameranno beata, perché grandi cose mi
ha fatto l'Onnipotente” (Lc 1,48). Questo culto, quale sempre è esistito nella
Chiesa sebbene del tutto singolare, differisce essenzialmente dal culto di
adorazione reso al Verbo incarnato cosi come al Padre e allo Spirito Santo, ed
è eminentemente adatto a promuoverlo. Infatti le varie forme di devozione verso
la madre di Dio, che la Chiesa ha approvato, mantenendole entro i limiti di una
dottrina sana e ortodossa e rispettando le circostanze di tempo e di luogo, il
temperamento e il genio proprio dei fedeli, fanno si che, mentre è onorata la
madre, il Figlio, al quale sono volte tutte le cose (cfr Col 1,15-16) e nel
quale “piacque all'eterno Padre di far risiedere tutta la pienezza ” (Col
1,19), sia debitamente conosciuto, amato, glorificato, e siano osservati i suoi
comandamenti.
Norme pastorali
67. Il santo Concilio formalmente insegna questa dottrina cattolica. Allo
stesso tempo esorta tutti i figli della Chiesa a promuovere generosamente il
culto, specialmente liturgico, verso la beata Vergine, ad avere in grande stima
le pratiche e gli esercizi di pietà verso di lei, raccomandati lungo i secoli
dal magistero della Chiesa; raccomanda di osservare religiosamente quanto in
passato è stato sancito circa il culto delle immagini di Cristo, della beata
Vergine e dei santi. Esorta inoltre caldamente i teologi e i predicatori della
parola divina ad astenersi con ogni cura da qualunque falsa esagerazione, come
pure da una eccessiva grettezza di spirito, nel considerare la singolare
dignità della madre di Dio. Con lo studio della sacra Scrittura, dei santi
Padri, dei dottori e delle liturgie della Chiesa, condotto sotto la guida del
magistero, illustrino rettamente gli uffici e i privilegi della beata Vergine,
i quali sempre sono orientati verso il Cristo, origine della verità totale,
della santità e della pietà. Sia nelle parole che nei fatti evitino
diligentemente ogni cosa che possa indurre in errore i fratelli separati o
qualunque altra persona, circa la vera dottrina della Chiesa. I fedeli a loro
volta si ricordino che la vera devozione non consiste né in uno sterile e
passeggero sentimentalismo, né in una certa qual vana credulità, bensì procede
dalla fede vera, dalla quale siamo portati a riconoscere la preminenza della
madre di Dio, e siamo spinti al filiale amore verso la madre nostra e
all'imitazione delle sue virtù.
V. Maria, segno di certa speranza e di consolazione per il peregrinante popolo
di Dio
Maria, segno del popolo di Dio
68. La madre di Gesù, come in cielo, in cui è già glorificata nel corpo e
nell'anima, costituisce l'immagine e l'inizio della Chiesa che dovrà avere il
suo compimento nell'età futura, così sulla terra brilla ora innanzi al
peregrinante popolo di Dio quale segno di sicura speranza e di consolazione,
fino a quando non verrà il giorno del Signore (cfr. 2 Pt 3,10).
Maria interceda per l'unione dei cristiani
69. Per questo santo Concilio è di grande gioia e consolazione il fatto che vi
siano anche tra i fratelli separati di quelli che tributano il debito onore
alla madre del Signore e Salvatore, specialmente presso gli Orientali, i quali
vanno, con ardente slancio ed anima devota, verso la madre di Dio sempre
vergine per renderle il loro culto. Tutti i fedeli effondano insistenti
preghiere alla madre di Dio e madre degli uomini, perché, dopo aver assistito
con le sue preghiere la Chiesa nascente, anche ora, esaltata in cielo sopra
tutti i beati e gli angeli, nella comunione dei santi interceda presso il
Figlio suo, fin tanto che tutte le famiglie di popoli, sia quelle insignite del
nome cristiano, sia quelle che ancora ignorano il loro Salvatore, in pace e
concordia siano felicemente riunite in un solo popolo di Dio, a gloria della
santissima e indivisibile Trinità.
21 novembre 1964
DAGLI ATTI DEL CONCILIO
ECUMENICO VATICANO II
Notificazioni fatte dall'Ecc.mo Segretario generale nella congregazione
generale 123.a
È stato chiesto quale debba essere la qualificazione teologica della dottrina
esposta nello schema sulla Chiesa e sottoposto alla votazione. La commissione
dottrinale ha dato al quesito questa risposta: “ Come è di per sé evidente, il
testo del Concilio deve sempre essere interpretato secondo le regole generali
da tutti conosciute ”. In pari tempo la commissione dottrinale rimanda alla sua
dichiarazione del 6 marzo 1964, di cui trascriviamo il testo:
“Tenuto conto dell'uso conciliare e del fine pastorale del presente Concilio,
questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i soli punti concernenti
la fede o i costumi, che esso stesso abbia apertamente dichiarato come tali.
“Le altre cose che il Concilio propone, in quanto dottrina del magistero
supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono accettarle e tenerle
secondo lo spirito dello stesso Concilio, il quale risulta sia dalla materia
trattata, sia dalla maniera in cui si esprime, conforme alle norme
d'interpretazione teologica”.
Per mandato dell'autorità superiore viene comunicata ai Padri una nota
esplicativa previa circa i “ modi ” concernenti il capo terzo dello schema
sulla Chiesa. La dottrina esposta nello stesso capo terzo deve essere spiegata
e compresa secondo lo spirito e la sentenza di questa nota.
16 novembre 1964
NOTA ESPLICATIVA PREVIA
La commissione ha stabilito di premettere all'esame dei "modi" le
seguenti osservazioni generali:
1) "Collegio" non si intende in senso “ strettamente giuridico ”,
cioè di un gruppo di eguali, i quali abbiano demandata la loro potestà al loro
presidente, ma di un gruppo stabile, la cui struttura e autorità deve essere
dedotta dalla Rivelazione. Perciò nella risposta al modus 12 si dice
esplicitamente dei Dodici che il Signore li costituì “ a modo di collegio o
"gruppo" (coetus) stabile ”. Cfr. anche il modus 53, c. Per la stessa
ragione, per il collegio dei vescovi si usano con frequenza anche le parole
"ordine" (ordo) o "corpo" (corpus). Il parallelismo fra
Pietro e gli altri apostoli da una parte, e il sommo Pontefice e i vescovi
dall'altra, non implica la trasmissione della potestà straordinaria degli
apostoli ai loro successori, né, com'è chiaro, "uguaglianza"
(aequalitatem) tra il capo e le membra del collegio, ma solo
"proporzionalità" (proportionalitatem) fra la prima relazione (Pietro
apostoli) e l'altra (papa vescovi). Perciò la commissione ha stabilito di
scrivere nel n. 22 non "medesimo" (eodem) ma "pari" modo.
Cfr. modus 57.
2) Si diventa "membro del collegio" in virtù della consacrazione
episcopale e mediante la comunione gerarchica col capo del collegio e con le
membra. Cfr. n. 22.
Nella consacrazione è data una "ontologica" partecipazione ai
"sacri uffici", come indubbiamente consta dalla tradizione, anche
liturgica. Volutamente è usata la parola "uffici" (munerum), e non
"potestà" (potestatum), perché quest'ultima voce potrebbe essere
intesa di potestà esercitabile di fatto (ad actum expedita). Ma perché si abbia
tale potestà esercitabile di fatto, deve intervenire la
"determinazione" canonica o "giuridica" (iuridica
determinatio) da parte dell'autorità gerarchica. E questa determinazione della
potestà può consistere nella concessione di un particolare ufficio o
nell'assegnazione dei sudditi, ed è concessa secondo le norme approvate dalla
suprema autorità. Una siffatta ulteriore norma è richiesta "dalla natura
delle cose", trattandosi di uffici, che devono essere esercitati da
"più soggetti", che per volontà di Cristo cooperano in modo
gerarchico. È evidente che questa "comunione" è stata applicata nella
vita della Chiesa secondo le circostanze dei tempi, prima di essere per così
dire codificata "nel diritto". Perciò è detto espressamente che è
richiesta la comunione "gerarchica" col capo della Chiesa e con le
membra. "Comunione" è un concetto tenuto in grande onore nella Chiesa
antica (ed anche oggi, specialmente in Oriente). Per essa non si intende un
certo vago "sentimento", ma una "realtà organica", che
richiede una forma giuridica e che è allo stesso tempo animata dalla carità. La
commissione quindi, quasi d'unanime consenso, stabilì che si scrivesse: “ nella
comunione "gerarchica" ”. Cfr. Mod. 40 ed anche quanto è detto della
"missione canonica", sotto il n. 24. I documenti dei recenti romani
Pontefici circa la giurisdizione dei vescovi vanno interpretati come attinenti
questa necessaria determinazione delle potestà.
3) Il collegio, che non si dà senza il capo, è detto essere: “anche esso
soggetto di suprema e piena potestà sulla Chiesa universale ”. Ciò va
necessariamente ammesso, per non porre in pericolo la pienezza della potestà del
romano Pontefice. Infatti il collegio necessariamente e sempre si intende con
il suo capo, "il quale nel collegio conserva integro l'ufficio di vicario
di Cristo e pastore della Chiesa universale". In altre parole: la
distinzione non è tra il romano Pontefice e i vescovi presi insieme, ma tra il
romano Pontefice separatamente e il romano Pontefice insieme con i vescovi. E
siccome il romano Pontefice e il "capo" del collegio, può da solo
fare alcuni atti che non competono in nessun modo ai vescovi, come convocare e
dirigere il collegio, approvare le norme dell'azione, ecc. Cfr. Modo 81. Il
sommo Pontefice, cui è affidata la cura di tutto il gregge di Cristo, giudica e
determina, secondo le necessità della Chiesa che variano nel corso dei secoli,
il modo col quale questa cura deve essere attuata, sia in modo personale, sia
in modo collegiale. Il romano Pontefice nell'ordinare, promuovere, approvare
l'esercizio collegiale, procede secondo la propria discrezione, avendo di mira
il bene della Chiesa.
4) Il sommo Pontefice, quale pastore supremo della Chiesa, può esercitare la
propria potestà in ogni tempo a sua discrezione, come è richiesto dallo stesso
suo ufficio. Ma il collegio, pur esistendo sempre, non per questo
permanentemente agisce con azione "strettamente" collegiale, come
appare dalla tradizione della Chiesa. In altre parole: Non sempre è “in pieno
esercizio”, anzi non agisce con atto strettamente collegiale se non ad
intervalli e "col consenso del capo". Si dice “ col consenso del capo
”, perché non si pensi a una "dipendenza", come nei confronti di chi
è "estraneo"; il termine "consenso" richiama, al contrario,
la "comunione" tra il capo e le membra e implica la necessità
dell'atto", il quale propriamente compete al capo. La cosa è
esplicitamente affermata nel n. 22 ed è ivi spiegata. La formula negativa
"se non" (nonnisi) comprende tutti i casi, per cui è evidente che le
"norme" approvate dalla suprema autorità devono sempre essere
osservate. Cfr. modus 84.
Dovunque appare che si tratta di "unione" dei vescovi "col loro
capo", e mai di azione dei vescovi "indipendentemente" dal papa.
In tal caso, infatti, venendo a mancare l'azione del capo, i vescovi non
possono agire come collegio, come appare dalla nozione di "collegio".
Questa gerarchica comunione di tutti i vescovi col sommo Pontefice è certamente
abituale nella tradizione.
N. B.- Senza la comunione gerarchica l'ufficio sacramentale ontologico, che si
deve distinguere dall'aspetto canonico giuridico, "non può" essere
esercitato. La commissione ha pensato bene di non dover entrare in questioni di
"liceità" e "validità", le quali sono lasciate alla
discussione dei teologi, specialmente per ciò che riguarda la potestà che di
fatto è esercitata presso gli Orientali separati e che viene spiegata in modi
diversi.
+ PERICLE FELICI
Arcivescovo tit. di Samosata
Segretario generale del Concilio