Lettera a Filemone
Ormai "vecchio e prigioniero" (1,9), Paolo stende questo breve scritto simile a un biglietto, che è stato definito da uno studioso "un vero capolavoro di tatto e di cuore". Egli lo indirizza a Filemone, un amico ricco e generoso, "collaboratore" nell'annunzio del vangelo, nella cui casa si riuniva una comunità di cristiani. A lui l'apostolo chiede un favore piuttosto sorprendente. Durante la sua carcerazione - in realtà durante gli arresti domiciliari di Roma, attorno agli inizi degli anni 60 - Paolo aveva incontrato e "generato" nella fede cristiana uno schiavo di nome Onèsimo.
Ebbene, costui era fuggito proprio dalla casa di Filemone: secondo il diritto romano, egli doveva essere restituito al padrone, il quale ne avrebbe deciso la sorte che meglio gli sarebbe stata gradita. La proposta che Paolo avanza è significativa della nuova visione che il cristianesimo stava introducendo nelle relazioni sociali, ed è per questo che il piccolo scritto diventa interessante e importante.
L'apostolo, dunque, invita l'antico padrone dello schiavo Onèsimo a riaccoglierlo non più come "schiavo", ma come "fratello carissimo", perché ormai in Cristo non c'è più "né schiavo né libero", ma tutti sono una cosa sola in lui (Calati 3,28). Il biglietto diventa, perciò, un appello all'amore, alla genuina libertà cristiana, alla fraternità oltre le distinzioni sociali e le classi.
Nella breve lettera Paolo fa anche balenare la speranza di essere restituito alla comunità dei cristiani e di essere ospitato proprio presso la casa di Filemone, al quale chiede di preparargli "un alloggio" (1,22). Non sappiamo se questo sogno poté realizzarsi, prima della morte dell'apostolo sotto Nerone imperatore.