La solitudine di Gesù
( Is. 50,4-7; salmo 21;Fil. 2,6-11;Mt. 26,14-27, 66)
Domenica delle Palme
Che la sofferenza della croce sia stata terribile per Gesù, è fuori di dubbio; e, sulla base di altre crocifissioni dell’epoca e dei dati della scienza medica odierna, la si potrebbe anche descrivere. In questa situazione, quel “Padre sia fatta la tua volontà” in bocca a Gesù (Mt.26,42), dà un senso di forte e drammatica distanza rispetto al nostro quotidiano, spesso facile e superficiale “Padre nostro…sia fatta la tua volontà”. Anche Gesù, avrebbe preferito fare a meno di quella fine, umanamente tragica e ingloriosa, che sembra contrastare col suo ingresso di re-Messia in Gerusalemme. Gesù ha bevuto fino in fondo il calice amaro, senza giocare a fare l’eroe. Gesù non è morto da eroe, ma da uomo. Amici miei, la sofferenza è sofferenza per tutti, la morte è morte, per tutti. In se stesse, sofferenza e morte, come tali, specialmente se cadono sull’innocente e sul giusto, offendono l’uomo e offendono Dio. Il Si’ di Gesù alla sua morte è stato il dono di tutto se stesso per la vita degli uomini e rivela la piena, profonda, totale condivisione di Dio con le sofferenze delle sue creature. Se uno vuol capire chi sia Dio, quale sia il suo volto, con quale intimità d’amore si sia legato all’umanità da farne quasi la sua partner, la sua sposa, deve meditare il racconto della passione di Gesù. Non dimentichiamo, infatti, che i padri della chiesa chiamavano la croce, “il talamo nuziale”, dal quale Dio, nel sangue del Figlio, ha stabilito con tutti gli uomini, di ogni luogo e di ogni tempo un legame fedele e indissolubile d’amore. Ma i Vangeli insistono, particolarmente, sulla passione interiore di Gesù, che si esprime nella sua solitudine. Quando si soffre, si vorrebbe non essere soli. Nei racconti della passione, Gesù appare totalmente solo: solo con se stesso, abbandonato dai suoi, abbandonato persino dal Padre. Nel Getzemani, soprattutto, Gesù è solo. I discepoli, invitati a vegliare con Lui, si addormentano e non partecipano alle sue pene: una solidarietà ardentemente invocata, una solidarietà puntualmente tradita! “Amico,per questo sei qui!” (Mt. 26,50). Con queste parole, Gesù risponde al bacio traditore di Giuda. Impossibile non ricordare ( ci pensava anche Gesù ?) il salmo 55,13-55:“ Se mi avesse insultato un nemico, l’avrei sopportato: se fosse insorto contro di me un avversario, da lui mi sarei nascosto. Ma sei tu, mio compagno, mio amico e confidente; ci legava una dolce amicizia, verso la casa di Dio camminavamo insieme”. “ Non conosco quell’uomo” (Mt.26,72.74): è’ quanto dice Pietro, che prima “ aveva seguito da lontano” Gesù e poi “ era entrato nel palazzo di Caifa…per vedere la fine(Mt.26,58) Chi se lo sarebbe aspettato? Pietro, scelto fra tutti alla guida del gruppo dei dodici, rinnega davanti a tutti il Maestro (Mt.26,70), “giura ed impreca” per paura o per vergogna di non conoscerlo (Mt.26,74). Così vanno a finire le calorose, promesse di fedeltà, fino al martirio:“ Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò”(Mt.26,35). Pietro imparava a sue spese quanto fossero vere le parole, un giorno pronunciate proprio da lui, forse in uno slancio di conversione: “ Signore, allontanati da me, che sono un peccatore”(Lc.5,8). A Pietro, come ad ogni peccatore pentito, non resta che “uscire all’aperto, in solitudine, e piangere amaramente” (Mt.26,75). Gesù rimarrà solo anche durante tutta la passione, mentre gli uomini dispongono di Lui come credono. Gesù solo “raramente” è il soggetto di ciò che sta succedendo. Sono gli uomini che fanno di Gesù quello che vogliono, quello che i loro desideri, i loro impulsi, le loro passioni li spingono a fare. E in questo noi ritroviamo davvero i nostri peccati, le nostre infedeltà, la tirannia del nostro “io”: in quei comportamenti ci possiamo rispecchiare tutti noi, perché anche noi non siamo poi molto diversi dalla fragilità e dalla paura dei discepoli, da Pietro, da Giuda, dai sommi sacerdoti o dagli anziani o dalla folla o dai soldati o da Pilato. Abbiamo, infatti, la stessa superbia come le stesse debolezze e le stesse insufficienze. Ma questo non è ancora il peccato. La croce ci ricorda che non sono i nostri comportamenti a dirci che cosa è il peccato, ma è l’infinito amore di Dio per noi che ci fa comprendere il non senso e il vuoto di tante nostre scelte egoiste. In quello che Gesù subisce, in solitudine, in silenzio e senza alcuna forma di aggressività verbale o relazionale,“quale agnello mansueto condotto al macello”, (Is.53,7) noi possiamo cogliere l’amore di un Padre che non si arrende di fronte a nessun ostacolo, che non ha limiti nell’amarci, che tutto crede, tutto spera, tutto sopporta, tutto copre (1Cor.13,7). E’ questo che ci fa cogliere la distanza fra noi e Dio, è davanti all’amore di questo Padre che noi comprendiamo l’egoismo e la chiusura del cuore, frutti del nostro peccato: il suo, infatti, è un amore che arriva a dare la vita, che si dona senza misura; il nostro è un amore svuotato dall’eccessivo attaccamento a noi stessi e dall’immagine che noi stessi dobbiamo presentare al mondo. Noi pensiamo ad un amore che sia solo gratificante sentimento, piacevole emozione, sensazione di benessere. Non pensiamo all’amore gratuità, ricerca genuina del bene dell’altra persona, offerta di sé perché l’altro viva. Confondiamo l’amore con la simpatia, l’intesa reciproca, l’affinità psicologa. Vorremmo un amore senza croce, senza sangue, senza prendere su di noi i limiti, le debolezze, i dolori della sorella e del fratello; un amore che nulla ci carichi sulle spalle, un amore che ci coroni di gloria e potere che, soprattutto, non ci incoroni di spine. In questo modo, mentre diciamo di voler amare l’altra/o, di fatto, in realtà, utilizziamo l’altro per amare solo noi stessi. L’ amore che ci insegna la croce, è tutta un’altra cosa: prima di incoronarti, ti macera, prima di innalzarti ti umilia, prima di farti sentire il gusto della vita, ti abbassa fino alla morte.