DIRSI PECCATORI, MA NON A PAROLE
26° DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
DEL TEMPO ORDINARIO
(Ez. 18,25-28; sal.24; Fil.2,1-11; Mt. 21,28-32)
E’ diventato un modo di dire così comune e anche un po’ banale l’espressione: “ siamo tutti peccatori” che il più delle volte, credo, il nostro cuore non fa….nemmeno una grinza; fino a non riconoscere più il peccato come qualche cosa che, a lungo andare, raffredda l’amore, fino a non confessarlo più né davanti a se stessi, né davanti a Dio né davanti alla Chiesa. Eppure riconoscerci peccatori nella verità del nostro cuore, fa sgorgare una profonda riconoscenza verso la misericordia del Signore e una tensione alla conversione continua. Le nostre fragilità, la lontananza dalla sua volontà, l’incapacità di salvarci da soli, costituiscono il senso della venuta di Gesù nel mondo e della sua missione. Egli per poter comunicare con noi, ha dovuto amare la nostra peccaminosità, le nostre cose storte, amarci proprio perché peccatori. Noi, invece, ci riconosciamo si peccatori fra noi, nel nostro dire, ma non ci accettiamo poi gli uni gli altri come peccatori, tanto meno ci amiamo come tali; anzi, proprio perché tali, ci critichiamo e ci dividiamo. Ognuno vorrebbe l’altro sempre migliore di ciò che è, non tollera le fragilità e gli errori del prossimo e quando questo sbaglia si è solitamente pronti a farglielo notare e farglielo pesare. Gesù, invece, mostra una continua predilezione per i peccatori: questo dato della sua persona lo caratterizza fortemente nei Vangeli, al punto tale che Paolo dirà che “Egli si è fatto peccato per noi”, per amarci fin nelle profondità del nostro male. Non ci deve sfuggire che la parabola che oggi noi ascoltiamo, Gesù l’ha narrata “ai principi dei sacerdoti e agli anziani del popolo”, cioè ai capi di Israele, alla dirigenza politica e morale di Gerusalemme, proprio per giustificare la sua attenzione verso i peccatori che gli veniva contestata apertamente, e che provocava lo scandalo di “tutti”. Si pensi all’episodio di Zaccheo, raccontato da Luca, in cui si narra che “tutti” mormoravano perché Gesù era andato a casa di un pubblicano, considerato per il lavoro che faceva (uno strozzino), peggio delle prostitute. Eppure tante volte i profeti avevano invitato al pentimento, tante volte il popolo aveva celebrato nei suoi riti la festa del perdono; Ezechiele stesso, nella prima lettura di oggi, riconosce la possibilità della conversione dei peccatori…tutte parole? Di fatto poi dalla gente, soprattutto dalle persone ritenute o che si ritenevano giuste e pie(!).., i peccatori erano tenuti a distanza; veniva fortemente sottolineata la distinzione tra puri e impuri,osservanti o non osservanti della Legge, e i peccatori erano condannati ( e che condanna che subivano a volte!), giudicati, emarginati, rifiutati nella loro storia e nel loro passato. Esattamente come facciamo noi. Diciamo che tutti siamo peccatori, ma poi marchiamo la differenza tra noi e gli altri… Perché non riconoscere, sinceramente, che l’amore del Signore è infinto per tutti i peccatori, anche per quel particolare peccatore che è ciascuno di noi, che ha sia peccati nascosti sia conosciuti? Ciascuno può dire come Pietro. “Signore, allontanati da me, che sono peccatore”; al contrario il Signore ci fa sperimentare ( e chissà quante volte lo ha fatto!) la vicinanza accogliente e calda della sua paternità. Un franco riconoscimento del nostro peccato, è possibile se le nostre debolezze, più o meno pesanti, comunque sempre ingombranti, vengono chiamate per nome, considerate “esperienze di vera debolezza”, non peccati scontati..”; ciò ci aiuta a tirarle fuori da frasi fatte o da espressioni del comune parlare dietro le quali le mascheriamo. Assumendole seriamente non solo per il negativo che portano in sé, in quanto offuscano la nostra somiglianza con Dio, ma soprattutto perché ci fanno sperimentare la misericordia, l’accoglienza, la gratuità d’amore del Signore verso di noi. Solo se viviamo il sentimento grato del suo perdono, possiamo guardare alle donne e agli uomini del nostro tempo e del nostro luogo, che sappiamo lontane dal Signore, con gli stessi suoi occhi di misericordia, senza alcuna sufficienza farisaica, senza alcun sentimento di distanza, ma come ci ricorda Paolo nella lettera ai filippesi “con gli stessi sentimenti che sono in Cristo Gesù” (Fil.2,6), cioè caricandoci del loro peccato, davanti a Dio soprattutto, in una continua preghiera di intercessione e dando loro una convincente testimonianza di vita.
S. Teresa di Gesù Bambino, della quale fra qualche giorno celebriamo la festa, ci insegna questa solidarietà vera con i peccatori; sentendoci come loro nelle nostre esperienze di fragilità fisica e morale, quasi seduti alla stessa mensa di passione.. Sarebbe un bel inizio di anno pastorale se ci riconoscessimo comunità amata dal Signore non per i meriti che ognuno può vantare, ma per i peccati dei quali ci è stata usata più volte misericordia.