Da che parte stiamo? - Il Mondo di Aquila e Priscilla

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Fiumi d'acqua viva...

Da che parte stiamo?
(1Sam. 16,1b. 4a. 6-7. 10-13a; salmo 22;Ef.5,8-14; Gv. 9,1-41)
4° Domenica di Quaresima

Chissà quante volte ci è capitato di osservare il sole mentre, faticosamente, si fa largo fra le nuvole, in un giorno di pioggia. Oppure quante volte abbiamo avuto giornate alternate ora da un sole splendente, ora da una pioggia insistente. Del resto, ogni giorno, anche il più luminoso, porta con sé le tenebre della notte. Luce e tenebre, giorno e notte, pioggia e sereno, fanno parte anche della nostra esperienza spirituale. A volte nel nostro cuore e nella nostra vita c’è un sole meraviglioso che ci rende gioiosi, ottimisti, pieni di serenità e di pace. Altre volte attraversiamo momenti di stanchezza, di confusione e di buio interiori, che ci fanno vedere tutto nero, tutto poco chiaro e ci mettono dentro tanto pessimismo e tanta incertezza. Le tenebre attentano sempre alla luce e vorrebbero sopraffarla e spesso, purtroppo, ci riescono. La lotta tra la “luce” e le “tenebre” è da sempre l’avvenimento centrale, decisivo del mondo, a cominciare dalla creazione (Gn.1,1-5). Da sempre l’uomo vive nel mondo cercando la luce, la chiarezza, la luminosità, la sicurezza del presente e del futuro, da sempre l’uomo cerca la luce attorno alla verità del suo esistere. L’uomo, cieco dalla nascita, di cui ci parla il Vangelo di oggi, esprime, innanzitutto la nostra incapacità di entrare nella vita nuova di Dio, se Cristo non ci passa accanto (Gv.9,1), se Lui che è la pienezza della Luce, perché da sempre vive nel seno del Padre (Gv.1,18) non ci illumina. Il primo passo verso di noi, lo fa sempre e solo Lui. Noi, creature fatte con il fango della terra, (Gn.2,7) veniamo come impastate dal suo Spirito, che è lo spirito d’amore del Padre suo. Così diventiamo, come nella prima creazione, persone viventi, che entrano nella vita di Dio, che scoprono che tutto ciò che sono, che hanno, che possono dare agli altri, è dono di Dio, chiamato “il Padre della luce”(Gc.1,17). Senza l’amore di Dio, non solo noi non saremmo nati, ma seppur avessimo la possibilità di nascere, saremmo come “ciechi nati”: incapaci di guardare chi siamo, con chi viviamo, dove stiamo andando. Cristo, l’unto di Dio, l’inviato di Dio, è mandato proprio per questo: per aprirci gli occhi sulla nostra realtà di figli di Dio. Questo dono dello Spirito d’amore ci viene fatto nel giorno del nostro Battesimo. Il fonte battesimale è la nostra piscina di Siloe, nella quale siamo stati immersi. Di lì è venuta la luce. Questo, però, non è sufficiente. Il cieco, infatti, ha si riacquistato la vista, ma il pieno riconoscimento di Cristo redentore e salvatore, morto e risorto per la nostra salvezza, arriva alla fine del brano.(Gv.9,38) La luce, dovrà affrontare, prima, lo scontro con le tenebre. In che cosa consiste? Nel metter in conto che, a causa della nostra adesione al Vangelo, dovremo far fronte a contrasti e contrapposizioni che ci vengono dal mondo e anche da chi sta molto vicino a noi, come i nostri parenti e conoscenti. Situazioni, queste, non prive, del rischio di essere messi ai margini della comunione e del rapporto con gli altri. Tanta parte di questo nostro mondo, così chiuso in se stesso, nelle sue certezze, nelle sue sicurezze, non tollera che la luce di Cristo smascheri le menzogna su cui si regge; cerca, pertanto, di opporsi, con tutte le forze e i mezzi di cui dispone, alla Luce e a quanti la testimoniano, seppur con argomentazioni poco significative e poco sapienti, come hanno fatti scribi e farisei. Il comportamento di costoro, poi, ci ricorda che la nostra fede, se non viene continuamente alimentata e confrontata con la Parola di Dio, è esposta al rischio del formalismo, dell’osservanza esteriore, di una sterile fedeltà alle norme, perché senza vero amore. I farisei, infatti, erano preoccupati che fosse rispettata la norma del sabato piuttosto che quel cieco venisse liberato da Gesù. (Gv.9,16). Per loro la norma scritta, veniva prima della persona in carne e ossa! Il fariseo rappresenta la persona religiosa, ligia alla legge, ma senza cuore, senza interesse per l’uomo che gli sta davanti. Il fariseo, chiamato più volte cieco e ipocrita da Gesù, (Mt.13,13) perché incapace di vero amore per i propri fratelli, ha di Dio e della legge, la stessa immagine che satana aveva suggerito al primo uomo (Gen.3,1). La sola differenza è che qui la menzogna è travestita da pietà, da devozione e da esteriore osservanza, là di autonomia e di ribellione. Ma il presupposto è uguale: Dio è contrario all’uomo e alla sua realizzazione. Nel brano del cieco nato, addirittura antagonista della salute fisica! Dobbiamo invece capire che ciò che è contro l’uomo è anche contro Dio. Attenzione, dunque, perché le tenebre sono molto fitte, e anche il nostro modo di vivere la fede può non essere illuminato e illuminante. Solo un amore vero, appassionato per Cristo, frutto di assidua meditazione e preghiera attorno alla Parola, e solo un amore ricco di bontà e di misericordia per i nostri fratelli, ci aiuteranno davvero a fare un discernimento autentico circa le tenebre che, attorno a noi, sono di ostacolo al pieno dispiegarsi della Luce. L’espressione del cieco nato “Signore io credo”, (Gv.9,38) equivale, infatti, al senso della sua prostrazione davanti a Lui e potremmo tradurla così: “ Signore, io ti amo”. Solo l’amore, infatti, sa vedere bene, perché rappresenta il pieno compimento del cammino di illuminazione. E questo non può non riversarsi, traboccante, anche nell’amore verso il nostro prossimo, nemici compresi. Il verbo “peccare” che nel testo evangelico è l’immagine della cecità interiore, significa propriamente: fallire il bersaglio, mancare la rotta. Chi non arriva ad amare Cristo più di se stesso, più delle persone che gli stanno accanto, più dei beni che gli servono per vivere, e persino più delle stesse leggi morali o religiose, è fuori strada, fallisce il bersaglio: come uomo e come credente. Non “verrà alla luce”, cioè non nascerà a vita nuova, perché amerà solo se stesso. E il peccatore questo fa: loda solo il suo “io”, umano o spirituale che sia. E, pur credendo di vederci bene, perché ossequiente alle norme, continuerà a rimanere cieco.


Don Roberto Zambolin


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