LA FEDE IN GESU' CRISTO
GESU' DIVINO RIVELATORE
I segni del soprannaturale
CONCLUSIONE
Da quanto siamo venuti dicendo fin dal primo volume, appare che l'uomo, immerso in un mondo transeunte e relativo, cerca da sempre qualcosa di stabile e di assoluto, qualcosa di grande e di degno su cui fondare la propria vita, e lo trova nella Divinità.'anelito al trascendente, poi, va di pari passo con quello per i valori morali, ossia con lo sforzo di elevarsi al di sopra dell'animalità bruta, per conseguire dei comportamenti sempre più rae onesti. Da questo duplice impulso verso l'essere e il bene assoluto nasce la religione.
Se essa è un fatto positivo sul piano storico, l'idea della Divinità che ne è alla base è saldamente fondata sul piano razionale. La ragione è dalla parte di Dio. La grande maggioranza dei pensatori è teista, perché l'unica spiegazione ragionevole dell'esistenza e dell'ordine del mondo, e insieme l'unica risposta soddisfacente al bisogno di assoluto dell'uomo, è Dio.la natura divina è avvolta da un fitto velo di mistero. Fu necessario quindi che « il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre » (Gv 1,18), vi aprisse uno spiraglio di luce. L'uomo Gesù, unito intimamente alla persona divina del « Figlio », è infatti per noi l'immagine visibile della Divinità. Il convergere su di lui di tanti segni del trascendente ne fa fede.
A questo punto si affaccia però spontanea una domanda: se i motivi per credere sono così chiari, se la fede è così ragionevole, perché mai non tutti credono? Tutti infatti ammettono le verità matematiche, ma non tutti ammettono l'esistenza di Dio e la divinità di Cristo. Che verità è mai quella che non convince tutti? che non tutte le verità sono di ordine matematico, e che quindi non tutte godono di questa particolare evidenza. C'è la verità storica, ad esempio, che oltre ad essere assai più sfumata, è anche più esposta a subire l'influenza delle disposizioni soggettive.
Per quanto riguarda in specie l'assenso di fede, esso dipende da un particolare tipo di giudizio: quello col quale riteniamo di poterci prudentemente fidare di qualcuno. Credere infatti vuol dire fidarsi: della Chiesa, di Cristo e, ultimamente, di Dio.
In un giudizio di questo genere si cerca di capire, attraverso un insieme di segni esterni, visti alla luce della nostra esperienza interiore, se una persona è dotata di determinati requisiti e se merita quindi la nostra fiducia. Dovendo valutare l'interiorità di un altro, dobbiamo rifarci all'esperienza del nostro mondo interiore, ossia a quel patrimonio di valori spirituali e morali che sono al fondo della nostra coscienza.
Si tratta dunque di una conoscenza ben diversa da quella impersonale della matematica, legata com'è all'orientamento generale del nostro spirito, ma non per questo puramente soggettiva o arbitraria. Non arriviamo forse tutti alla fondata certezza di poterci fidare di qualcuno?
L'adesione di fede, inoltre, non è un'adesione puramente teorica, priva d'incidenza nella vita. Al contrario, credere in Dio significa entrare in un certo rapporto con lui, mentre credere in Cristo significa accoglierlo come maestro. Quanti hanno interese gusti contrari a quelli di Cristo difficilmente saranno disposti a credergli.contenuto del messaggio cristiano è il primo criterio di credibilità e, in pratica, l'unico a disposizione della maggior parte degli uomini. Ma ciò che attira gli uni può respingere gli altri. Se la volontà si oppone a una certa condotta, l'intelligenza tenderà a giudicarla negativamente. Come già notava Berkeley, « è una cosa così debole la ragione quando compete con l'inclinazio» [9] .
E nella fede l'inclinazione dello spirito ha una parte che in matematica non ha. Per questo la fede è anche libera e meritoria. La ragione ci conduce alle soglie della fede, ma per credere occorre anche volere, perché occorre impegnarsi per la vita.
Nel Vangelo questo appare chiaramente. Gesù si rifiuta di compiere un « segno dal cielo » (Mc 8,11 e par.), perché lo ritiene inutile. I segni ch'egli offre, la sua persona, la sua dottrina e i suoi miracoli, sono sufficienti per chi è disposto a credere. Ma egli sa che chi non è disposto non crederebbe « neanche se vedesse risorgere un morto » (Lc 16,31).fede, in ultima analisi, consiste nel credere che Dio ci ama e che per questo si è occupato di noi (1 Gv 4,16). Ma nulla e nessuno può costringere un uomo a lasciarsi amare. Un segno di amore, e anche i miracoli lo sono, non può essere capito e accolto con la sola ragione, perché impegna tutta la nostra personalità. Per questo la fede si colloca al punto d'incontro tra mente e cuore, tra pensiero e vita, e implica una risposta globale di tutto l'uomo all'appello divino.'atteggiamento del cuore più necessario alla fede è quello dell'umiltà, di quella virtù cioè che ci svuota delle nostre false sicurezze per renderci trasparenti alla verità di Dio. Si tratta di una verità che sempre ci trascende, e che perciò richiede sempre un animo aperto e docile, disposto a riconoscere, con Amleto, che vi sono più cose in cielo e sulla terra di quante non ne contengano le nostre costruzioni mentali., tale verità divina e misteriosa non è ordinata a umiliare l'intelligenza, ma ad arricchirla, non a soffocarla in schemi precostituiti, ma ad aprirla a nuovi e più vasti orizzonti. È una ricchezza infatti sapere che Dio ci è padre e che perciò ogni uomo ha la dignità di figlio di Dio; è una ricchezza sapere che non c'è lacrima che non verrà tersa, non c'è ingiustizia che non verrà riparata, e che al di là della vita terrena ci attende una vita nuova in Cristo risorto; è una ricchezza il fatto di poter essere buoni con tutti, certi che Dio saprà fare una giustizia migliore della nostra; è una ricchezza, insomma, poter vivere amando e sperando come figli del Padre celeste.nel Vangelo è liberante, sia per i singoli che per la società. Ci libera dalla morsa dell'orgoglio e dell'egoismo, come ci libera dal culto idolatrico dei beni materiali e della suggestione dei miti utopistici di future età dell'oro.fede cristiana si conciliano e si risolvono il valore della paziente rassegnazione, proprio dell'antico Oriente, con quello dell'impegno attivo e della lotta, proprio dell'Occidente moderno. Il cristiano infatti sa pazientare e soffrire quando è lui l'offeso, e con ciò evita di alimentare pericolosi sentimenti di odio, ma sa anche lottare con tenacia quando la dignità di figlio di Dio è offesa negli altri. Non per niente uno spirito critico come Emanuele Kant poteva dire che « la dottrina del Cristianesimo... offre un concetto del sommo bene (del regno di Dio) che è il solo a soddisfare le richieste più rigorose della ragion pratica » (Critica della ragion pratica, lib. II, c. 2, par. 5, A 230, in Scritti morali, UTET, Torino 1970, p. 276)