LA FEDE IN GESU' CRISTO
GESU' DIVINO RIVELATORE
La coscienza messianica di Gesù
IL MODO DI AGIRE DI GESU'
La convinzione di Gesù di essere il Figlio di Dio non emerge solo dall'uso dei titoli messianici, ma da tutto il suo modo di parlare e di agire. Più di questa o di quella frase, dovette essere tutto il suo contegno, visto alla luce della risurrezione, a convincere i discepoli della sua divinità. Egli si comportava infatti in maniera ben diversa da quella degli scribi (Mc 1,22), dei profeti dell'Antico Testamento e di Giovanni Battista, per la coscienza che aveva di essere superiore a loro.
Colpisce il fatto che quello stesso Gesù che si presenta « mite ed umile di cuore » (Mt 11,29), che rifiuta onori (Gv 6,14-15) ed è amico dei poveri e dei bambini, quando insegna lo fa « come uno che ha autorità » (Mc 1,22), tanto da lasciare « stupiti » quanti lo ascoltano.
Il suo modo di predicare è diverso da quello tradizionale dei profeti. Costoro parlavano sempre in nome e per autorità di Dio, intercalando spesso il loro discorso con frasi come: « Mi fu rivolta questa parola del Signore »; « Il Signore mi disse »; « Oracolo del Signore »; ecc. Gesù invece, non solo ignora tale procedimento, ma pone in risalto che quanto dice è lui che lo dice, e che per questo è vero. Significativo al riguardo è l'uso dell'« io enfatico », sia quando si tratta d'insegnare una verità, che quando si tratta di comun miracolo. Per gli insegnamenti, possiamo ricordare il quinto capitolo di Matteo, ove per ben sei volte Gesù ripete: « Avete udito che fu detto agli antichi... Ma io vi dico... ». Per i miracoil troviamo con frequenza frasi come: « Ti ordino... alzati, prendi il tuo letto e va' a casa tua » (Mc 2,11); « Giovadico a te, alzati » (Lc 7,14); « Lo voglio, sii mondato » (Mt 8,3); ecc.quindi che il potere d'insegnare la verità di Dio e di compiere le sue opere, è rivendicato da Gesù come qualcosa che gli compete in proprio.é vi sono dubbi sul fatto che abbia parlato in questo modo. « Questo io enfatico corre lungo l'intera tradizione dei detti di Gesù; sotto il profilo critico-letterario non si può eliminare ed è senza paralleli nell'ambiente dell'epoca di Gesù ».'altra espressione « che non ha analogia di sorta in tutta la letteratura dell'antico giudaismo », e che quindi dev'essere considerata sicuramente autentica è « in verità vi dico », posta all'inizio del discorso per evidenziarne la verità.
Ciò che noi traduciamo « in verità », nel testo originale dei Vangeli è « amen », un'espressione ebraica che significa « cer», « sicuramente ». Essa veniva sempre usata come formula di approvazione della comunità al termine di un discorso o di una preghiera, più o meno come avviene oggi, quando i fedeli pronunciano l'« amen » al termine della preghiera liturgica.ù invece l'usa all'inizio di frase in senso rafforzativo, e tale uso « sta a significare il suo potere » m: ciò ch'egli dice è vero in senso assoluto perché è lui che lo dice. D'altronde, il suo modo di parlare si accorda perfettamente con l'idea ch'egli ha di se stesso. Gesù si pone al centro del suo messaggio ed esige una piena e totale adesione a lui, superiore anche a quella che lega i membri di una stessa famiglia. Si salva chi accetta la sua parola e la sua persona. Accogliere lui infatti è accogliere il Padre e rifiutare lui è rifiutare il Padre. Per questo sarà lui il giudice degli uomini alla fine dei tempi (Mt 25,31-46).
Egli inoltre si colloca al di sopra di Giona e di Salomone (Mt 12,41-42), al di sopra del tempio (Mt 12,6) e degli stessi angeli (Mc 13,27; Mt 13,41): in una parola, al di sopra di quanto vi era di più sacro nella religione d'Israele.
Il suo modo di predicare è diverso da quello tradizionale dei profeti. Costoro parlavano sempre in nome e per autorità di Dio, intercalando spesso il loro discorso con frasi come: « Mi fu rivolta questa parola del Signore »; « Il Signore mi disse »; « Oracolo del Signore »; ecc. Gesù invece, non solo ignora tale procedimento, ma pone in risalto che quanto dice è lui che lo dice, e che per questo è vero. Significativo al riguardo è l'uso dell'« io enfatico », sia quando si tratta d'insegnare una verità, che quando si tratta di comun miracolo. Per gli insegnamenti, possiamo ricordare il quinto capitolo di Matteo, ove per ben sei volte Gesù ripete: « Avete udito che fu detto agli antichi... Ma io vi dico... ». Per i miracoil troviamo con frequenza frasi come: « Ti ordino... alzati, prendi il tuo letto e va' a casa tua » (Mc 2,11); « Giovadico a te, alzati » (Lc 7,14); « Lo voglio, sii mondato » (Mt 8,3); ecc.quindi che il potere d'insegnare la verità di Dio e di compiere le sue opere, è rivendicato da Gesù come qualcosa che gli compete in proprio.é vi sono dubbi sul fatto che abbia parlato in questo modo. « Questo io enfatico corre lungo l'intera tradizione dei detti di Gesù; sotto il profilo critico-letterario non si può eliminare ed è senza paralleli nell'ambiente dell'epoca di Gesù ».'altra espressione « che non ha analogia di sorta in tutta la letteratura dell'antico giudaismo », e che quindi dev'essere considerata sicuramente autentica è « in verità vi dico », posta all'inizio del discorso per evidenziarne la verità.
Ciò che noi traduciamo « in verità », nel testo originale dei Vangeli è « amen », un'espressione ebraica che significa « cer», « sicuramente ». Essa veniva sempre usata come formula di approvazione della comunità al termine di un discorso o di una preghiera, più o meno come avviene oggi, quando i fedeli pronunciano l'« amen » al termine della preghiera liturgica.ù invece l'usa all'inizio di frase in senso rafforzativo, e tale uso « sta a significare il suo potere » m: ciò ch'egli dice è vero in senso assoluto perché è lui che lo dice. D'altronde, il suo modo di parlare si accorda perfettamente con l'idea ch'egli ha di se stesso. Gesù si pone al centro del suo messaggio ed esige una piena e totale adesione a lui, superiore anche a quella che lega i membri di una stessa famiglia. Si salva chi accetta la sua parola e la sua persona. Accogliere lui infatti è accogliere il Padre e rifiutare lui è rifiutare il Padre. Per questo sarà lui il giudice degli uomini alla fine dei tempi (Mt 25,31-46).
Egli inoltre si colloca al di sopra di Giona e di Salomone (Mt 12,41-42), al di sopra del tempio (Mt 12,6) e degli stessi angeli (Mc 13,27; Mt 13,41): in una parola, al di sopra di quanto vi era di più sacro nella religione d'Israele.
In due momenti la consapevolezza della propria trascendenza emerge con particolare chiarezza: quando osa modificare la legge di Dio e perdonare i peccati.
Riguardo alla legge, egli contesta anzitutto il valore della tradizione secolare del giudaismo che regolava l'adempimento della legge divina con una serie di minuziose prescrizioni le quali, col tempo, avevano assunto un'autorità pari alla legge stessa.
Gesù non ne tiene conto: in giorno di sabato guarisce diversi ammalati (Mc 3,1-5 e par.; Lc 13,10-17; 14,1-6), e permette agli apostoli di cogliere del grano per sfamarsi (Mc 2,23-28 e par.). E di fronte alle proteste scandalizzate dei farisei, riche « il Figlio dell'uomo è signore anche del sabato » (Mc 2,28 e par.). Allo stesso modo si comporta con le prescrizioni della purità legale, quali le abluzioni prima dei pasti, la lavatura di determinate stoviglie, ecc., prescrizioni cui la tradizione attribuiva un grande valore (Mc 7,1-23).
Superiore nei confronti della tradizione, Gesù si sente superiore nei confronti della stessa legge di Mosè. Se la legge antica vietava solo i giuramenti falsi (Nm 30,3), Gesù vieta ogni tipo di giuramento (Mt 5,34); se Mosè aveva acconsentito il ripudio della moglie (Dt 24,1), Gesù lo esclude (Mc 10,2-12 e par.; Mt 5,31-32); se la legge proibiva alcuni cibi come impuri (Lv 11; Dt 14,3-21), Gesù non tiene conto di tali proibizioni, asserendo che « non c'è nulla fuori dell'uomo che entrando in lui, possa contaminarlo » (Mc 7,15 e par.). Egli sposta la sua attenzione dall'esterno dell'uomo al suo interno, proponendosi di perfezionare la legge, interiorizzandola. Così, al divieto dell'adulterio egli aggiunge quello dei desideri disonesti (Mt 5,28), e al divieto dell'omicidio quello dell'offesa e dell'odio (Mt 5,21-24). Ancora, egli proclama il precetto dell'amore verso tutti, anche se nemici e malvagi (Mt 5,38-42), e abolisce l'antica legge della vendetta, detta del taglione (Es 21,23-25; Lv 24,20; Dt 19,21. Cf Mt 5,38-40).
Tutto ciò significa modificare profondamente norme morali ritenute di origine divina, e farlo a nome proprio o per propria autorità. In questi passi infatti torna insistente l'uso dell'io enfatico.
Per quanto riguarda il perdono dei peccati, poi, esso viene concesso talora in maniera implicita, come nel caso dell'adultera (Gv 8,3-11), di Zaccheo (Lc 19,1-10) e del buon ladrone (Lc 23,43), laddove Gesù dà per scontato il perdono di un peccatore pentito. Altre volte invece esso è esplicito, e Gesù dichiara apertamente: « Ti sono rimessi i tuoi peccati ». Questo accade con la peccatrice in casa di Simone il fariseo (Lc 7,36-50), e col paralitico di Cafarnao (Mc 2,1-12 e par.). La sorpresa dei presenti è grande. Nel primo caso essi si chiedono: « Chi è quest'uomo che perdona anche i peccati? », mentre nel secondo formulano esplicitamente l'accusa di bestemmia « Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo? ».
Ora, ci chiediamo, come ha potuto Gesù comportarsi in questo modo, ben sapendo di provocare uno scandalo, di rendere sempre più difficile la sua missione e di rischiare la stessa vita come bestemmiatore e falso profeta, se non fosse stato realmente convinto della sua divina trascendenza?
Concludendo, sappiamo che la Chiesa, già 20-25 anni dopo la morte del suo fondatore, era convinta che egli fosse il Figlio di Dio, e che questa convinzione non poteva esser nata dalla Chiesa stessa. Ora, se questa idea non può esser attribuita alla comunità cristiana, deve derivare da Gesù.
Egli infatti, anche se non ha mai affermato direttamente di essere il Figlio di Dio, perché ciò non sarebbe stato compreso né tollerato dai suoi contemporanei, lo ha però lasciato chiaramente intendere sia con le parole che con i fatti. I discepoli hanno così avuto il tempo di assimilare gradualmente un'idea tanto nuova e sorprendente per loro, e alla luce della risurrezione ne hanno compreso tutta la portata.
« Il mistero [di Gesù] non poteva essere scoperto pienamente a loro finché lo vedevano vivere tra di loro, come uno di loro. Fu necessaria la Risurrezione e l'effusione dello Spirito per convincere la loro fede che egli apparteneva veramente al mondo divino ».fede della Chiesa in Gesù, Figlio di Dio, non fu dunque una creazione della Chiesa stessa, ma una logica conseguenza del modo di parlare e di agire di Gesù, visti alla luce della sua risurrezione.