LA FEDE IN GESU' CRISTO
GESU' DIVINO RIVELATORE
La coscienza messianica di Gesù
I TITOLI MESSIANICI NEI SINOTTICI
Per « titoli messianici » s'intendono quelle particolari espressioni, nate in seno alla tradizione giudaica, che al tempo di Gesù servivano per designare il Messia.
« Il grande Eletto ch'era stato promesso dagli antichi profeti come liberatore e glorificatore d'Israele, era atteso nei due seanteriori e in quello posteriore a Gesù in maniera ansiosissima. La sua venuta era messa in relazione con le condizioni in cui si trovava la nazione. Questo Messia avrebbe dovuto instaurare in Israele un'epoca di felicità, la quale sarebbe stata anche una giusta ricompensa per le tante umiliazioni fino allora sofferte; il Dio Jahvè, liberando per mezzo del Messia la sua prediletta nazione e facendola trionfare di tutti i suoi nemici, avrebbe procurato anche il suo proprio trionfo: il dominio di Israele su tutte le nazioni pagane sarebbe stato anche il dominio del vero Dio su tutti i figli dell'uomo, il Regno di Dio sulla terra ». L'accentuazione in senso politico delle speranze messianiavvenuta negli ultimi due secoli avanti Cristo, non aveva però completamente offuscato l'idea di un Messia religioso. Alcuni testi di Qumràn documentano l'attesa tra gli esseni sia di un Messia-re, liberatore politico d'Israele, che di un Messia-sacerdote. Anche negli scritti apocrifi giudaici, di cui diremo più avanti, era viva l'aspettativa di un salvatore spirituale, di natura celeste, inviato da Dio non solo per Israele, ma per tutti gli uomini. tempo di Gesù era dunque molto viva la speranza di un Messia, ma l'idea dei suoi compiti e delle sue prerogative era assai differenziata. Ciascuno si aspettava dall'« Unto » del Siciò che corrispondeva alle proprie aspirazioni, e poiché l'aspirazione politica predominava su quella religiosa, il messianismo politico era di gran lunga il più diffuso, anche se non l'unico in senso assoluto.
Vivendo in questo ambiente, Gesù incontrò molta difficoltà a farsi capire. Non poteva dichiararsi « Messia » senza provocare una reazione politica. Doveva dunque rivelarsi gradualmente, parlando e operando in modo da lasciar intendere il suo pensiero, specie ai più vicini, ma senza che le masse potessero trarne erronee conclusioni. Ad onta della sua prudenza, infatti, in occasione di un miracolo appariscente come la moltiplicazione dei pani, la folla si convinse che fosse « il profeta che deve venire nel mondo », e si mosse « a prenderlo per farlo re » (Gv 6,14-15).così le cose, non possiamo aspettarci da lui delle affermazioni troppo esplicite sulla sua persona e sulla sua missione, ma dovremo coglierne il pensiero dall'insieme del suo modo di parlare e di agire.ò vale innanzi tutto per l'uso ch'egli fa dei titoli messianici. Ne esamineremo tre, tra i più significativi: quello di « Cristo », di « Figlio dell'uomo » e di « Figlio di Dio ». La conclusione sarà che Gesù era convinto di essere il Messia, ma in senso essenzialmente religioso, e di essere in un rapporto tanto intimo con Dio da potersi definire suo Figlio.
« Il grande Eletto ch'era stato promesso dagli antichi profeti come liberatore e glorificatore d'Israele, era atteso nei due seanteriori e in quello posteriore a Gesù in maniera ansiosissima. La sua venuta era messa in relazione con le condizioni in cui si trovava la nazione. Questo Messia avrebbe dovuto instaurare in Israele un'epoca di felicità, la quale sarebbe stata anche una giusta ricompensa per le tante umiliazioni fino allora sofferte; il Dio Jahvè, liberando per mezzo del Messia la sua prediletta nazione e facendola trionfare di tutti i suoi nemici, avrebbe procurato anche il suo proprio trionfo: il dominio di Israele su tutte le nazioni pagane sarebbe stato anche il dominio del vero Dio su tutti i figli dell'uomo, il Regno di Dio sulla terra ». L'accentuazione in senso politico delle speranze messianiavvenuta negli ultimi due secoli avanti Cristo, non aveva però completamente offuscato l'idea di un Messia religioso. Alcuni testi di Qumràn documentano l'attesa tra gli esseni sia di un Messia-re, liberatore politico d'Israele, che di un Messia-sacerdote. Anche negli scritti apocrifi giudaici, di cui diremo più avanti, era viva l'aspettativa di un salvatore spirituale, di natura celeste, inviato da Dio non solo per Israele, ma per tutti gli uomini. tempo di Gesù era dunque molto viva la speranza di un Messia, ma l'idea dei suoi compiti e delle sue prerogative era assai differenziata. Ciascuno si aspettava dall'« Unto » del Siciò che corrispondeva alle proprie aspirazioni, e poiché l'aspirazione politica predominava su quella religiosa, il messianismo politico era di gran lunga il più diffuso, anche se non l'unico in senso assoluto.
Vivendo in questo ambiente, Gesù incontrò molta difficoltà a farsi capire. Non poteva dichiararsi « Messia » senza provocare una reazione politica. Doveva dunque rivelarsi gradualmente, parlando e operando in modo da lasciar intendere il suo pensiero, specie ai più vicini, ma senza che le masse potessero trarne erronee conclusioni. Ad onta della sua prudenza, infatti, in occasione di un miracolo appariscente come la moltiplicazione dei pani, la folla si convinse che fosse « il profeta che deve venire nel mondo », e si mosse « a prenderlo per farlo re » (Gv 6,14-15).così le cose, non possiamo aspettarci da lui delle affermazioni troppo esplicite sulla sua persona e sulla sua missione, ma dovremo coglierne il pensiero dall'insieme del suo modo di parlare e di agire.ò vale innanzi tutto per l'uso ch'egli fa dei titoli messianici. Ne esamineremo tre, tra i più significativi: quello di « Cristo », di « Figlio dell'uomo » e di « Figlio di Dio ». La conclusione sarà che Gesù era convinto di essere il Messia, ma in senso essenzialmente religioso, e di essere in un rapporto tanto intimo con Dio da potersi definire suo Figlio.
1. Cristo
La parola greca che traduce l'ebraico Messia, ossia « Cristo », divenne ben presto per la Chiesa il titolo messianico per eccellenza e, a partire da san Paolo, finì con l'essere strettamente unita al nome di Gesù. Il nostro problema è ora di sapere se e quando Gesù si è attribuito questo titolo. cercare una risposta nei sinottici, dovremo usare molta prudenza. Gli evangelisti infatti avrebbero potuto compiere inconsciamente una trasposizione, attribuendo a Gesù un termine che era loro familiare, ma che in realtà egli non usò mai. E questo spontaneamente, in perfetta buona fede.
La possibilità che questo sia accaduto ci farà molto attenti nell'esame dei testi che seguono. Cercheremo sempre di determinare, caso per caso, se il loro contenuto è autentico o redazionale, se appartiene cioè al linguaggio di Gesù o se è dovuto a quello della prima comunità cristiana.
Vi sono anzitutto due testi in cui Gesù si attribuisce in modo esplicito il titolo di « Cristo ». Un primo in cui dice: « Chiunque vi darà da bere un bicchiere d'acqua nel mio nome perché siete di Cristo, vi dico in verità che non perderà la sua ricompensa » (Mc 9,41), e un altro in cui raccomanda: « Non fatevi chiamare "maestri", perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo » (Mt 23,10).
Su questi due passi grava tuttavia il sospetto d'inautenà. Si tratta infatti di due incisi, di due spiegazioni, che hanno tutta l'aria di essere delle aggiunte dell'evangelista. La chiara affermazione di Gesù di essere il Cristo, avrebbe suscitato una vivace reazione nell'uditorio, che qui invece non appare, e non sarebbe stata riferita come un semplice inciso. Oltre tutto, Matteo 23,10 è senza paralleli negli altri Vangeli, mentre in Matteo 10,42, che è il parallelo di Marco 9,41, mancano le parole « perché siete di Cristo ».volte ancora Gesù usa il titolo di Cristo, ma non si può capire con certezza se allude a se stesso.'allusione più chiara si ha invece quando applica a sé il brano di Isaia 61,1-2, laddove il profeta si definisce un « consacrato con l'unzione » per recare « il lieto annunzio ai miseri ». L'uso di questo testo profetico per affermare la propria missione di « Unto », ossia di Cristo, è fatto da Gesù una prima volta nella sinagoga di Cafarnao quando, dopo aver letto il passo in queegli afferma: « Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita » (Lc 4,21). È fatto una seconda volta quando Giovanni Battista, sorpreso che Gesù tratti con pubblicani e peccatori, manda dei discepoli a chiedergli: « Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro? » (Mt 11,3 e par.). E Gesù, citando Isaia 61,1-2, fa intendere che è stato consacrato per una missione di misericordia.
Nei sinottici non c'è altro. Come si vede, si tratta solo di accenni. Essi ci preparano però a comprendere meglio la condotta di Gesù, qualora l'appellativo di Cristo gli venga rivolto dagli altri.
Questo avviene anzitutto a Cesarea quando, alla domanda del Maestro: « Chi dice la gente che io sia? », Pietro risponde: « Tu sei il Cristo » (Mc 8,27-29 e par.). Gesù non respinge la confessione di Pietro, poiché da un uomo come lui non aveva nulla da temere. Tuttavia si affretta a raccomandare ai discepoli « di non parlare di lui a nessuno » (Mc 8,30 e par.), ed a chiarire che la sua missione è diversa da quella che essi si attendevano. Infatti « incominciò a insegnar loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire... e poi venire ucciso » (Mc 8,31 e par.). A queste parole Pietro « lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: "Lungi da me satana! Perché tu non parli secondo Dio, ma secondo gli uomini" » (Mc 8,32-33 e par.).
Abbiamo qui, in sintesi, l'atteggiamento tenuto da Gesù nel rivelarsi come Messia. Silenzio con le folle, per il pericolo di gravi malintesi, e graduale rivelazione ai discepoli, che pure stentano molto a capire.
Quanto alla storicità del fatto, non vi sono dubbi. Esso è riferito da tutti i sinottici, è collocato in un luogo ben preciso, a Cesarea di Filippo, e ci presenta un Pietro coerente con l'immagine che ne danno tutti i vangeli: loquace, impulsivo e saldamente ancorato a un messianismo terreno. Egli inoltre riceve un severo rimprovero da Gesù, che non può certo esser stato inventato né da Marco né dalla comunità cristiana di Roma, che venerava in Pietro l'apostolo del Signore.
La possibilità che questo sia accaduto ci farà molto attenti nell'esame dei testi che seguono. Cercheremo sempre di determinare, caso per caso, se il loro contenuto è autentico o redazionale, se appartiene cioè al linguaggio di Gesù o se è dovuto a quello della prima comunità cristiana.
Vi sono anzitutto due testi in cui Gesù si attribuisce in modo esplicito il titolo di « Cristo ». Un primo in cui dice: « Chiunque vi darà da bere un bicchiere d'acqua nel mio nome perché siete di Cristo, vi dico in verità che non perderà la sua ricompensa » (Mc 9,41), e un altro in cui raccomanda: « Non fatevi chiamare "maestri", perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo » (Mt 23,10).
Su questi due passi grava tuttavia il sospetto d'inautenà. Si tratta infatti di due incisi, di due spiegazioni, che hanno tutta l'aria di essere delle aggiunte dell'evangelista. La chiara affermazione di Gesù di essere il Cristo, avrebbe suscitato una vivace reazione nell'uditorio, che qui invece non appare, e non sarebbe stata riferita come un semplice inciso. Oltre tutto, Matteo 23,10 è senza paralleli negli altri Vangeli, mentre in Matteo 10,42, che è il parallelo di Marco 9,41, mancano le parole « perché siete di Cristo ».volte ancora Gesù usa il titolo di Cristo, ma non si può capire con certezza se allude a se stesso.'allusione più chiara si ha invece quando applica a sé il brano di Isaia 61,1-2, laddove il profeta si definisce un « consacrato con l'unzione » per recare « il lieto annunzio ai miseri ». L'uso di questo testo profetico per affermare la propria missione di « Unto », ossia di Cristo, è fatto da Gesù una prima volta nella sinagoga di Cafarnao quando, dopo aver letto il passo in queegli afferma: « Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita » (Lc 4,21). È fatto una seconda volta quando Giovanni Battista, sorpreso che Gesù tratti con pubblicani e peccatori, manda dei discepoli a chiedergli: « Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro? » (Mt 11,3 e par.). E Gesù, citando Isaia 61,1-2, fa intendere che è stato consacrato per una missione di misericordia.
Nei sinottici non c'è altro. Come si vede, si tratta solo di accenni. Essi ci preparano però a comprendere meglio la condotta di Gesù, qualora l'appellativo di Cristo gli venga rivolto dagli altri.
Questo avviene anzitutto a Cesarea quando, alla domanda del Maestro: « Chi dice la gente che io sia? », Pietro risponde: « Tu sei il Cristo » (Mc 8,27-29 e par.). Gesù non respinge la confessione di Pietro, poiché da un uomo come lui non aveva nulla da temere. Tuttavia si affretta a raccomandare ai discepoli « di non parlare di lui a nessuno » (Mc 8,30 e par.), ed a chiarire che la sua missione è diversa da quella che essi si attendevano. Infatti « incominciò a insegnar loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire... e poi venire ucciso » (Mc 8,31 e par.). A queste parole Pietro « lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: "Lungi da me satana! Perché tu non parli secondo Dio, ma secondo gli uomini" » (Mc 8,32-33 e par.).
Abbiamo qui, in sintesi, l'atteggiamento tenuto da Gesù nel rivelarsi come Messia. Silenzio con le folle, per il pericolo di gravi malintesi, e graduale rivelazione ai discepoli, che pure stentano molto a capire.
Quanto alla storicità del fatto, non vi sono dubbi. Esso è riferito da tutti i sinottici, è collocato in un luogo ben preciso, a Cesarea di Filippo, e ci presenta un Pietro coerente con l'immagine che ne danno tutti i vangeli: loquace, impulsivo e saldamente ancorato a un messianismo terreno. Egli inoltre riceve un severo rimprovero da Gesù, che non può certo esser stato inventato né da Marco né dalla comunità cristiana di Roma, che venerava in Pietro l'apostolo del Signore.
Un'altra volta Gesù non rifiuta, anzi accetta implicitamente il titolo di Cristo, ed è nel processo di fronte a Caifa. Riferisce il Vangelo di Marco: « Il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: "Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?". Gesù rispose: "Io lo sono!" » (Mc 14,61-62 e par.). Nel passo parallelo di Luca (22,67-68), invece, risponde in maniera elusiva, e così in quello di Matteo (26,64) che, al posto di « io lo sono », ha « tu l'hai detto ».critici concordano nel ritenere che sia più fedele la verdi Matteo, proprio perché è la meno esplicita. Difficilmente infatti la tradizione avrebbe ammorbidito o sfumato una frase in cui Gesù affermava categoricamente di essere il Messia, mentre è comprensibile che sia avvenuto il contrario.senso della risposta di Gesù: « Tu l'hai detto », nella lingua aramaica del tempo, può essere: « Mettiamola pure coì, se ti piace » , ed equivale al nostro: « Lo dici tu ». Gesù non accetta dunque senza riserve l'appellativo di Cristo, carico di pesanti ipoteche politiche, ma neppure lo rifiuta. Piuttosto si affretta a precisarne il senso: « E vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo » (Mc 14,62 e par.).significato di questa frase torneremo più tardi. Per ora ci basti sapere che Gesù non ha rifiutato, anzi ha implicitamente accolto il titolo di Cristo, e questo in un momento solenne della sua vita, quello del processo di fronte ai capi religiosi d'Israele. Era dunque convinto di esserlo, anche se in un senso diverso da quello corrente.'autenticità di questo passo è sicura. Esso appartiene al racconto della passione, uno dei più antichi e storicamente più fondati del Vangelo, è riportato da tutti e tre i sinottici, riferisce esattamente la mentalità giudaica sul Messia, così come l'uso di sostituire il nome di Dio con quello di « Potenza » o di « Benedetto ». è poi confermato dagli schemi delle autorità e del popolo ai piedi della croce. « Ha salvato altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d'Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo » (Mc 15,31-32 e par.). Queste parole che, essendo di scherno, non possono essere invenzione della Chiesa o dell'evangelista, mostrano che Gesù aveva preteso di essere il Messia. E anche la scritta posta sulla croce col motivo della condanna, che diceva « il re dei Giudei » (Mc 15,26 e par.), ne è una riprova.
2. Figlio dell'uomo
Se Gesù non si è mai esplicitamente attribuito il titolo di Cristo, si è invece attribuito spesso quello di « Figlio dell'uomo ». Tale espressione ricorre infatti ben 82 volte nei Vangeli e sempre sulle sue labbra.
Sulla storicità del fatto non ci sono dubbi. Questo titolo non può esser attribuito alla Chiesa, perché non le era abituale. Frequentissimo nei Vangeli, non appare più negli altri libri del Nuovo Testamento, perché inadatto ad esprimere in modo adeguato la fede in Gesù, Messia, Signore, e Figlio di Dio.
« Come mai la comunità evita ben presto il titolo di Figlio dell'uomo a causa della sua ambiguità, non lo inserisce nelle formule di fede e tuttavia lo tramanda nelle parole di Cristo (nei sinottici, anzi, è l'unica autodenominazione di Gesù), ne favorisce la diffusione ma ne limita l'impiego al solo Gesù? C'è una sola risposta: il titolo era inseparabilmente integrato nelle parole di Gesù fin dall'inizio; perciò era sacrosanto e nessuno avrebbe mai osato cancellarlo ».
Accertato il fatto, resta da chiarire che cosa significhi queespressione, e perché venga usata da Gesù a preferenza di altre.
Figlio dell'uomo, nella lingua parlata dell'epoca, poteva avere sia il significato generico di « uomo », sia un significato più specifico e particolare. Infatti, a partire dal 7° capitolo del Libro di Daniele, Figlio dell'uomo era divenuto, in alcuni circoli del giudaismo devoto, un titolo messianico.
Il testo di Daniele, un libro della Bibbia che risale alla metà del I secolo avanti Cristo e che appartiene al genere letterario apocalittico suona così:
Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire sulle nubi del cielo,
uno, simile ad un figlio di uomo;fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno;i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno,non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto (7,13-14).contesto generale in cui s'inserisce questo brano è quello di una serie di visioni del profeta. Egli vede emergere successivamente dal mare quattro animali mostruosi, che simboleggiano quattro regni (vv. 1-8). Dopo l'uccisione del quarto animale, ossia la fine del quarto regno, appare in cielo un essere che non ha più la forma di animale, ma di uomo: è il Figlio dell'uomo.
Stando ai versetti 18.22.27 di questo capitolo, esso sarebbe il simbolo di un ultimo regno, quello del « popolo dei santi dell'Altissimo » (v. 27). Tuttavia, poiché « per il pensiero sel'equiparazione fra collettività e rappresentante individuale è corrente », « è ovvio pensare che "l'uomo" in origine fosse stato pensato anche lui come rappresentante del popolo dei santi » 34, ossia come il re-liberatore, come il Messia atteso da Israele.passare del tempo si andò sempre più affermando questa interpretazione in senso personale del Figlio dell'uomo. Essa è saldamente attestata negli Apocrifi giudaici, nei quali è frequente tanto l'uso del genere letterario apocalittico, quanto l'iche sia prossima la venuta del Messia. Soprattutto in due di essi, nel Libro di Enoch e nel IV Libro di Esdra, ritorna con insistenza l'immagine del Figlio dell'uomo per indicare l'atteso Messia.
Sulla storicità del fatto non ci sono dubbi. Questo titolo non può esser attribuito alla Chiesa, perché non le era abituale. Frequentissimo nei Vangeli, non appare più negli altri libri del Nuovo Testamento, perché inadatto ad esprimere in modo adeguato la fede in Gesù, Messia, Signore, e Figlio di Dio.
« Come mai la comunità evita ben presto il titolo di Figlio dell'uomo a causa della sua ambiguità, non lo inserisce nelle formule di fede e tuttavia lo tramanda nelle parole di Cristo (nei sinottici, anzi, è l'unica autodenominazione di Gesù), ne favorisce la diffusione ma ne limita l'impiego al solo Gesù? C'è una sola risposta: il titolo era inseparabilmente integrato nelle parole di Gesù fin dall'inizio; perciò era sacrosanto e nessuno avrebbe mai osato cancellarlo ».
Accertato il fatto, resta da chiarire che cosa significhi queespressione, e perché venga usata da Gesù a preferenza di altre.
Figlio dell'uomo, nella lingua parlata dell'epoca, poteva avere sia il significato generico di « uomo », sia un significato più specifico e particolare. Infatti, a partire dal 7° capitolo del Libro di Daniele, Figlio dell'uomo era divenuto, in alcuni circoli del giudaismo devoto, un titolo messianico.
Il testo di Daniele, un libro della Bibbia che risale alla metà del I secolo avanti Cristo e che appartiene al genere letterario apocalittico suona così:
Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire sulle nubi del cielo,
uno, simile ad un figlio di uomo;fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno;i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno,non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto (7,13-14).contesto generale in cui s'inserisce questo brano è quello di una serie di visioni del profeta. Egli vede emergere successivamente dal mare quattro animali mostruosi, che simboleggiano quattro regni (vv. 1-8). Dopo l'uccisione del quarto animale, ossia la fine del quarto regno, appare in cielo un essere che non ha più la forma di animale, ma di uomo: è il Figlio dell'uomo.
Stando ai versetti 18.22.27 di questo capitolo, esso sarebbe il simbolo di un ultimo regno, quello del « popolo dei santi dell'Altissimo » (v. 27). Tuttavia, poiché « per il pensiero sel'equiparazione fra collettività e rappresentante individuale è corrente », « è ovvio pensare che "l'uomo" in origine fosse stato pensato anche lui come rappresentante del popolo dei santi » 34, ossia come il re-liberatore, come il Messia atteso da Israele.passare del tempo si andò sempre più affermando questa interpretazione in senso personale del Figlio dell'uomo. Essa è saldamente attestata negli Apocrifi giudaici, nei quali è frequente tanto l'uso del genere letterario apocalittico, quanto l'iche sia prossima la venuta del Messia. Soprattutto in due di essi, nel Libro di Enoch e nel IV Libro di Esdra, ritorna con insistenza l'immagine del Figlio dell'uomo per indicare l'atteso Messia.
L'idea di Messia presente in queste pagine è però diversa da quella tradizionale del re davidico, condottiero e liberatore politico. Come nel Libro di Daniele, egli giunge portato sulle nubi del cielo (4 Es 13,3), siede sul trono della gloria (En 45,3; 55,4; 61,8; 62,2ss), è giudice dell'umanità (En 45,3; 49,4; 55,4; 62,3), raccoglie un esercito pacifico (4 Es 13,12ss), e si fa sostegno dei giusti, speranza dei tribolati e luce dei popoli (En 48,4-5 [21]. Venire sulle nubi del cielo e assidersi sul trono della gloria, sono indici della divina trascendenza di questo personaggio, che altrove è detto esistere prima della creazione del sole e del cielo (En 48,3.6) [21]. Esso appare quindi come un essere soprannaturale, portatore di una salvezza religiosa e universale (En 48,4).
Si comprende allora perché Gesù abbia usato questo titolo per designare se stesso. Esso esprimeva infatti un concetto di Messia che era il meno lontano dal suo. Poco noto alle folle, presso le quali rimaneva per lo più misterioso (Gv 12,34), non creava pericoli sul piano politico, mentre permetteva di far intendere ai più sensibili il carattere religioso e soprannaturale del suo messianismo.
Ed è proprio ricalcando il linguaggio apocalittico di Daniele e degli Apocrifi giudaici che Gesù rivendica la trascendenza del Figlio dell'uomo, ossia la sua trascendenza. Il Figlio dell'uomo, infatti, verrà « sulle nubi con grande potenza e gloria » (Mc 13,26 e par.); « manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti » (Mc 13,27 e par.), e sederà « sul trono della sua gloria » coi dodici rappresentanti delle dodici tribù d'Israele (Mt 19,28 e par.).
Si comprende allora perché Gesù abbia usato questo titolo per designare se stesso. Esso esprimeva infatti un concetto di Messia che era il meno lontano dal suo. Poco noto alle folle, presso le quali rimaneva per lo più misterioso (Gv 12,34), non creava pericoli sul piano politico, mentre permetteva di far intendere ai più sensibili il carattere religioso e soprannaturale del suo messianismo.
Ed è proprio ricalcando il linguaggio apocalittico di Daniele e degli Apocrifi giudaici che Gesù rivendica la trascendenza del Figlio dell'uomo, ossia la sua trascendenza. Il Figlio dell'uomo, infatti, verrà « sulle nubi con grande potenza e gloria » (Mc 13,26 e par.); « manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti » (Mc 13,27 e par.), e sederà « sul trono della sua gloria » coi dodici rappresentanti delle dodici tribù d'Israele (Mt 19,28 e par.).
La più solenne affermazione della trascendenza del Figlio dell'uomo si ha nel processo di fronte a Caifa. Interrogato dal sommo sacerdote se ritenga di essere il Cristo, Gesù risponde: « Tu l'hai detto ». E aggiunge: « D'ora innanzi vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra di Dio, e venire sulle nubi del cielo » (Mt 26,64 e par.).queste parole egli si rifà alle profezie messianiche sia del Salmo 110, che del Libro di Daniele. Nel Salmo 110, il Messia è descritto come il « Signore » che siede alla destra di Dio (v. 1) quale re e giudice dei popoli (v. 6) e quale sacerdote di natura misteriosa e trascendente (v. 4). Nel 7° capitolo di Daniele, letto alla luce dell'apocalittica giudaica, il Figlio dell'uomo che viene sulle nubi del cielo è inteso come Messia religioso e divino.
Questa pretesa divinità fu compresa chiaramente dal sinedrio, che accusò Gesù di « bestemmia » (Mc 14,64 e par.), reato che non avrebbe potuto attribuirgli se si fosse accontentato di dichiararsi Messia nel senso comune del termine.
Per questa sua pretesa Gesù andò incontro alla morte, sapendo però che all'insuccesso del momento avrebbe fatto sela vittoria della risurrezione gloriosa, dell'affermazione della Chiesa sul giudaismo, e infine del suo ritorno come giuuniversale alla fine dei tempi. Questo voleva dire quando, nel linguaggio simbolico dell'apocalittica, prometteva di ritornare sulle nubi del cielo e di sedere alla destra di Dio.
Questa pretesa divinità fu compresa chiaramente dal sinedrio, che accusò Gesù di « bestemmia » (Mc 14,64 e par.), reato che non avrebbe potuto attribuirgli se si fosse accontentato di dichiararsi Messia nel senso comune del termine.
Per questa sua pretesa Gesù andò incontro alla morte, sapendo però che all'insuccesso del momento avrebbe fatto sela vittoria della risurrezione gloriosa, dell'affermazione della Chiesa sul giudaismo, e infine del suo ritorno come giuuniversale alla fine dei tempi. Questo voleva dire quando, nel linguaggio simbolico dell'apocalittica, prometteva di ritornare sulle nubi del cielo e di sedere alla destra di Dio.
3. Figlio di Dio
L'espressione « Figlio di Dio », che ricorre più volte nel Vangelo di Giovanni e in san Paolo, è la più chiara ed esplicita affermazione del Nuovo Testamento sulla divinità di Gesù.
Vogliamo ora sapere se, stando ai soli sinottici, Gesù si è mai attribuito il titolo di Figlio di Dio e, prima ancora, quale senso potesse avere questa espressione per lui e per i suoi contemporanei.col dire che questa locuzione, intesa in senso generico per indicare una creatura superiore e privilegiata, è già presente nell'Antico Testamento. Figli di Dio sono gli angeli (Sal 29,1; Gb 1,6; 2,1; ecc.); Figlio di Dio è il popolo d'Israele (Es 4,22; Ger 31,9.20; ecc.), come lo sono i membri di questo popolo e, in particolare, gli uomini più vicini a Iahvè (Sap 2,13.16; 5,5), o rivestiti di una speciale autorità (1 Cr 22,10; Sal 82,6).di Dio è infine anche l'atteso Messia. Il Salmo 2 pone infatti sulle sue labbra queste parole: « Annunzierò il decreto del Signore. Egli mi ha detto: "Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato" » (v. 7). Ugualmente nel Salmo 89, parlando del Messia, Dio così si esprime: « Egli mi invocherà: Tu sei mio padre, mio Dio e roccia della mia salvezza. Io lo costituirò priil più alto tra i re della terra » (vv. 27-28).questi testi, però, l'espressione Figlio di Dio non divenne mai un titolo messianico d'uso comune. Essa « è riuna qualifica d'ordine diverso, con una portata più larga e più precisa; più larga perché può applicarsi ad altri personaggi che non il Messia, più precisa perché designa, presso il Messia o in ogni altro, il tratto caratteristico di una speciale intimità con Dio ».
Chiarito il senso dell'espressione, troviamo che nei sinotGesù non l'applica mai a se stesso. Tuttavia talvolta sono gli altri ad usarla. È il caso della confessione di Pietro: « Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente! » (Mt 16,16), come di quella degli apostoli che, vistolo camminare sulle acque, « gli si prostrarono davanti esclamando: "Tu sei veramente il Figlio di Dio!" » (Mt 14,33).
Data l'assoluta eccezionalità dell'espressione, e dato che essa manca nei passi paralleli di Marco (8,29) e di Luca (9,20), i critici per lo più ritengono che sia dovuta alla redazione di Matteo greco. Il traduttore greco di Matteo avrebbe posto sulle labbra di Pietro e degli apostoli una locuzione che gli era familiare, ma che in realtà non fu mai pronunciata. Con ogni probabilità si spiegano in questo modo anche gli schemi ai piedi della croce riportati da Matteo: « Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce! ...Ha detto infatti: Sono Figlio di Dio! » (Mt 27,40-43), che mancano nei paralleli di Marco (15,29-32) e di Luca (23,35-37). Ugualmente, la frase del centurione alla morte di Gesù: « Davvero costui era Figlio di Dio! » (Mc 15,39 e par.), appare improbabile sulle labbra di un ufficiaromano. E se anche fosse stata pronunciata, non avrebbe avuto per un pagano che un senso molto vago.
Se vogliamo dunque fondare storicamente la fede della Chiesa in Gesù, Figlio di Dio, dobbiamo farlo su di un terreno più solido, anche se meno appariscente.
C'è anzitutto il fatto che Gesù si rivolge a Dio chiamandolo col nome di Padre, con un appellativo cioè del tutto insolito e originale. Infatti, « l'invocazione di Dio come padre non si trova mai nell'Antico Testamento ».
Vogliamo ora sapere se, stando ai soli sinottici, Gesù si è mai attribuito il titolo di Figlio di Dio e, prima ancora, quale senso potesse avere questa espressione per lui e per i suoi contemporanei.col dire che questa locuzione, intesa in senso generico per indicare una creatura superiore e privilegiata, è già presente nell'Antico Testamento. Figli di Dio sono gli angeli (Sal 29,1; Gb 1,6; 2,1; ecc.); Figlio di Dio è il popolo d'Israele (Es 4,22; Ger 31,9.20; ecc.), come lo sono i membri di questo popolo e, in particolare, gli uomini più vicini a Iahvè (Sap 2,13.16; 5,5), o rivestiti di una speciale autorità (1 Cr 22,10; Sal 82,6).di Dio è infine anche l'atteso Messia. Il Salmo 2 pone infatti sulle sue labbra queste parole: « Annunzierò il decreto del Signore. Egli mi ha detto: "Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato" » (v. 7). Ugualmente nel Salmo 89, parlando del Messia, Dio così si esprime: « Egli mi invocherà: Tu sei mio padre, mio Dio e roccia della mia salvezza. Io lo costituirò priil più alto tra i re della terra » (vv. 27-28).questi testi, però, l'espressione Figlio di Dio non divenne mai un titolo messianico d'uso comune. Essa « è riuna qualifica d'ordine diverso, con una portata più larga e più precisa; più larga perché può applicarsi ad altri personaggi che non il Messia, più precisa perché designa, presso il Messia o in ogni altro, il tratto caratteristico di una speciale intimità con Dio ».
Chiarito il senso dell'espressione, troviamo che nei sinotGesù non l'applica mai a se stesso. Tuttavia talvolta sono gli altri ad usarla. È il caso della confessione di Pietro: « Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente! » (Mt 16,16), come di quella degli apostoli che, vistolo camminare sulle acque, « gli si prostrarono davanti esclamando: "Tu sei veramente il Figlio di Dio!" » (Mt 14,33).
Data l'assoluta eccezionalità dell'espressione, e dato che essa manca nei passi paralleli di Marco (8,29) e di Luca (9,20), i critici per lo più ritengono che sia dovuta alla redazione di Matteo greco. Il traduttore greco di Matteo avrebbe posto sulle labbra di Pietro e degli apostoli una locuzione che gli era familiare, ma che in realtà non fu mai pronunciata. Con ogni probabilità si spiegano in questo modo anche gli schemi ai piedi della croce riportati da Matteo: « Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce! ...Ha detto infatti: Sono Figlio di Dio! » (Mt 27,40-43), che mancano nei paralleli di Marco (15,29-32) e di Luca (23,35-37). Ugualmente, la frase del centurione alla morte di Gesù: « Davvero costui era Figlio di Dio! » (Mc 15,39 e par.), appare improbabile sulle labbra di un ufficiaromano. E se anche fosse stata pronunciata, non avrebbe avuto per un pagano che un senso molto vago.
Se vogliamo dunque fondare storicamente la fede della Chiesa in Gesù, Figlio di Dio, dobbiamo farlo su di un terreno più solido, anche se meno appariscente.
C'è anzitutto il fatto che Gesù si rivolge a Dio chiamandolo col nome di Padre, con un appellativo cioè del tutto insolito e originale. Infatti, « l'invocazione di Dio come padre non si trova mai nell'Antico Testamento ».
Egli inoltre, nella sua preghiera, si serve del termine aramaico 'abbà', ossia del termine familiare dei bambini, che corrisponde al nostro papà. Il fatto è attestato una sola volta nei sinottici e riguarda l'orazione di Gesù al Getsemani: « Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! » (Mc 14,36), ma la critica ritiene ch'egli abbia sempre adottato questo termine nella sua preghiera .
Questo, sia per il particolare uso della parola greca patér, che lascia capire come fosse soggiacente un 'abbà' a tutte le sue invocazioni di Dio, sia per la presenza di questa espressione nella preghiera della Chiesa primitiva. Il fatto, attestato da Paolo, che anche in ambienti non ebraici i cristiani invocassero Dio con un appellativo per loro così insolito, non si spiega se non come un'eco della preghiera di Gesù. Stando così le cose, troviamo sulle labbra del Signore una espressione non solo originale, ma impensabile per un ambiente in cui non si osava neppure pronunciare il nome di Iahvè, e che doveva suonare alle orecchie dei suoi contemporanei come irriverente, se non addirittura blasfema. Chi credeva dunque di essere quest'uomo che osava chiamare Dio col nome di « papà »?
Diremo anzitutto che Gesù pensa a Dio come a « suo pa», perché si sente con lui in un rapporto tutto particolare ed esclusivo. Egli parla spesso di Dio come del « Padre mio che è nei cieli » (Mt 7,21; 10,32-33; 12,50; 18,35; ecc.), del « Padre mio » (Mt 25,34; Lc 2,49; 24,49; ecc.), o semplicemente del « Padre » (Mt 11,26; Lc 22,29; ecc.). Per i discepoli invece, usa sempre l'espressione « Padre vostro » (Mt 5,16. 45.48; 6,15; Mc 11,25; Lc 6,36; ecc.), senza mai associarsi a loro nella comune filiazione divina. Giovanni lo sottolinea nelle parole del Risorto: « Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro » (Gv 20,17).non si spiegherebbe se Gesù non avesse pensato di essere Figlio di Dio in maniera diversa da quella di tutti gli altri.
Tale sua convinzione emerge chiaramente anche da altri passi del Vangelo.
Innanzi tutto c'è la parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12,112 e par.), nella quale è descritto in forma allegorica il rifiuto d'Israele, rappresentato dalla vigna , di accogliere gli inviati di Dio. Dio manda a più riprese i suoi servi a chiedere i frutti che gli spettano, ma i vignaioli reagiscono bastonandoli e uccidendoli. Fa allora un estremo tentativo inviando suo figlio, ma anche lui viene ucciso. Le allusioni sono chiare: i servi sono i profeti dell'Antico Testamento, i vignaioli sono la classe dirigente giudaica e il figlio è Gesù stesso. Qui inoltre il figlio è detto « prediletto », che nel greco biblico può anche significare « unico »: è infatti l'unico erede, ucciso il quale ci si può impossessare della vigna (Mc 12,7). Gesù lascia quindi chiaramente capire di sentirsi Figlio di Dio in maniera unica ed esclusiva, che non ha nulla a spartire con quella degli altri.'altra volta Gesù manifesta la convinzione di essere Figlio di Dio in maniera unica ed esclusiva, ed è parlando del suo ritorno glorioso alla fine dei tempi, quando dice: « Quanto poi a quel giorno o a quell'ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli nel cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre » (Mc 13,32 e par.).
Ora, con queste parole, Gesù si pone su di un piano superiore sia agli altri uomini che agli stessi angeli, e afferma l'unicità eminente della propria filiazione divina.
La stessa idea ritorna a proposito della sua conoscenza di Dio. « Tutto mi è stato dato dal Padre mio — egli afferma —; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare » (Mt 11,27 e par.). Qui Gesù ci dice che la sua conoscenza del Padre è uguale a quella che il Padre ha di lui, che è cioè piena e adeguata. Ma poiché solo Dio può conoscere adeguatamente Dio, se ne deve dedurre che Gesù era convinto di essere Dio. Alla luce di questi testi, possiamo rileggere la risposta di Gesù a Caifa. Sappiamo che fu intesa come una bestemmia, e questo anzitutto per il riferimento al Figlio dell'uomo, dal quale trasparivano segni evidenti di pretesa divinità. Possiamo ora aggiungere che la domanda di Caifa: « Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto? » (Mc 14,61 e par.), doveva riecheggiare il linguaggio di Gesù sulla sua condizione di Figlio privilegiato di Dio. « Si ha l'impressione -scrive il Dodd - che il titolo "Figlio di Dio" non sia stato inteso come un semplice sinonimo di "messia", ma vi si siano scorte (quando Gesù lo usò) allarmanti implicazioni ». Il sinedrio doveva dunque conoscere il modo di parlare di Gesù e doveva considerarlo temerario. Nel processo volle metterlo alle strette, e la risposta che egli dette permise di formulare l'accusa di bestemmia. Ma poiché non si muore per qualcosa in cui non si crede, Gesù doveva essere ben convinto della sua filiazione divina. Non poté quindi negarla di fronte al sutribunale del suo popolo, e per questo salì il patibolo.