Credere33 - Il Mondo di Aquila e Priscilla

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LA FEDE IN GESU' CRISTO
GESU' DIVINO RIVELATORE
La coscienza messianica di Gesù

Accertata la possibilità di conoscere il Gesù storico, resta ora da vedere se egli è davvero il Messia atteso dal popolo ebraico e se è anche, come vogliono i cristiani, un Messia divino. Naturalmente, se ciò fosse, la verità del suo messaggio sarebbe garantita da Dio stesso. Nulla di più certo di ciò che è detto da Dio, nulla di più sicuro di ciò che da lui è promesso.
Ma come sapere se Gesù di Nazaret è realmente « il Cristo, il Figlio del Dio vivente » (Mt 16,16)?
Nella prima parte vedremo che Gesù si è veramente attribuito titoli e poteri divini. Nella seconda, passeremo a considerare alcune circostanze che hanno accompagnato la sua vita e che mostrano come questa sua pretesa non fu follia né inganno. Molti tratti della sua persona e del suo messaggio portano infatti l'impronta del trascendente.
Per « coscienza messianica » intendiamo la convinzione di Gesù di essere il Messia (in greco il « Cristo », ossia l'« Unto », il « Consacrato » da Dio per la salvezza d'Israele), e di essere un Messia divino. Una prima lettura del Vangelo non sembra lasciar dubbi al riguardo. Alla samaritana che afferma: « So che deve venire il Messia (cioè il Cristo) », Gesù risponde: « Sono io che ti parlo » (Gv 4,25-26). Esortando poi i discepoli all'esercizio della carità fraterna, dice: « Chiunque vi darà da bere un bicchier d'acqua nel mio nome, perché siete di Cristo, vi dico in verità che non perderà la sua ricompensa » (Mc 9,41 e par.), mentre esortandoli all'umiltà, raccomanda loro di non farsi chiamare « maestri », « perché — aggiunge — uno solo è il vostro Maestro, il Cristo » (Mt 23,10).
Oltre al titolo di Messia, Gesù si attribuisce esplicitamente anche quello di Figlio di Dio. Parlando di sé, afferma infatti: « È venuto il momento, ed è questo, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio » (Gv 5,25). A Pietro che confessa: « Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente! », egli risponde: « Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli » (Mt 16,1617). Altre volte, poi, in disputa coi giudei, oserà dire: « Prima che Abramo fosse, Io Sono! » (Gv 8,58; cf Gv 17,5); « Io e il Padre siamo una cosa sola » (Gv 10,30); « Il Padre è in me e io nel Padre » (Gv 10,38).
Sono asserzioni chiare e precise che non lasciano adito a dubbi: Gesù era convinto di essere non solo il Messia, ma anche il Figlio di Dio, sostanzialmente uguale al Padre. cosa però non è così semplice come potrebbe sembrare a prima vista, né così pacifica per tutti. Quanti rifiutano di credere che Gesù sia il Figlio di Dio, per lo più rifiutano di credere che abbia mai pensato di esserlo. Per costoro, l'idea della sua divinità sarebbe nata dall'entusiasmo di alcuni discepoli per la sua pretesa risurrezione e, col passare degli anni, si sarebbe imposta a tutta la Chiesa.fanno notare come la tendenza a divinizzare le grandi personalità scomparse fosse molto diffusa nell'antichità, e anche al tempo di Gesù. È noto che i faraoni d'Egitto erano considerati esseri divini già in vita, e dèi sotto ogni aspetto dopo la morte. Anche Alessandro Magno fu divinizzato, forse proprio perché aveva occupato il trono dei faraoni, come lo furono i suoi successori, i Tolomei di Egitto ed i Seleucidi di Siria, le due dinastie ellenistiche che ressero la Palestina per circa due secoli. Furono questi sovrani a farsi attribuire quei titoli divini di Kyrios (Signore) e di Sòtér (Salvatore), che la Chiesa riprese e attribuì a Gesù quando volle elevarlo alla dignità di Dio.
Insomma, per aver predicato il « regno » di Dio e per essersi proclamato « re », sarebbe accaduto a Gesù ciò che ai suoi tempi accadeva agli imperatori di Roma: come ad essi, gli fu tributata l'« apoteosi », e fu annoverato tra le divinità.
A sostegno di questa tesi si porta il fatto che solo nel Vangelo di Giovanni Gesù afferma chiaramente di essere Dio. Tutti i testi che abbiamo riportato, ad eccezione di Matteo 16,16, appartengono infatti a Giovanni, l'ultimo Vangelo in ordine di tempo e quello meno fedele alle parole testuali di Gesù.
Quanto alla confessione di Pietro, di Matteo 16,16, essa manca nei passi paralleli di Marco (8,29) e di Luca (9,20), laddove Pietro si limita ad affermare: « Tu sei il Cristo! », senza aggiungere « il Figlio del Dio vivente ». Poiché il testo di Matteo in nostro possesso è una traduzione non letterale dell'originale semitico, ed è posteriore alla redazione di Marco e di Luca, se ne deduce che il passo in questione è un'aggiunta tardiva della Chiesa la quale, col passare del tempo, andava attribuendo al Maestro la sua convinzione che fosse il Figlio di Dio, convinzione che però egli non avrebbe mai avuto. Da Marco a Matteo greco, fino a Giovanni, vi sarebbe dunque un crescendo nel processo di divinizzazione di Gesù compiuto dalla Chiesa.
Questa tesi ci offre l'esempio di come si possa formulare una teoria che colpisce al cuore il cristianesimo, in maniera apparentemente critica e scientifica, ma che in realtà manca di fondamento.
Mostreremo tale infondatezza facendo anzitutto alcune osservazioni generali sulla possibilità che Gesù sia stato divinizzato dai discepoli, per poi passare a un esame dettagliato di ciò che i sinottici ci dicono sulla coscienza messianica di Gesù.


Gesù divinizzato dai discepoli?

La prima osservazione da fare su questa ipotesi riguarda l'ambiente nel quale si sarebbe verificata, che è l'ambiente giudaico. Infatti, anche se la Chiesa si sviluppò ben presto fuori dei confini della Palestina, molti dei primi cristiani erano ebrei della diaspora, ossia emigrati nelle principali città dell'impero, così come ebrei erano gli apostoli e i loro più stretti collaboratori, senza il cui consenso sarebbe stato impossibile introdurre novità di rilievo nella Chiesa.

Ora, il popolo ebraico professava da secoli la fede in un solo e unico Dio, al quale nulla e nessuno poteva paragonarsi e col quale nulla e nessuno poteva competere. Questo senso della trascendenza divina si esprimeva in un grande rispetto per tutto ciò che riguardava Dio, a cominciare dal suo stesso nome.
« Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio » (Es 20,7), era scritto nel Decalogo, e il pio israelita si sentiva in dovere di sostituire il nome di Iahvè con espressioni quali l'« Altissimo », il « Benedetto », la « Potenza », ecc. . Era anche convinzione diffusa che chi avesse visto Dio (Gn 32,31; Es 33,20; Gdc 13,22; ecc.), o udito la sua voce (Es 20,19; Dt 5,24-26; ecc.), sarebbe morto, essendo impossibile per l'uomo sopravvivere al contatto con la sua infinita maestà.perché trascendente, Dio era concepito come unico e non tollerava rivali. « Non ti devi prostrare ad altro Dio, perché il Signore si chiama Geloso: egli è un Dio geloso » (Es 34,14; cf Es 20,5; Dt 4,24; ecc.), affermava la Bibbia. Questo Dio era tanto geloso della sua unicità e trascendenza, che non solo non sopportava gli idoli, ma non sopportava neppure di esser rappresentato con immagini e simulacri (Es 20,4; Dt 4,1520), nel timore che il culto dell'immagine degenerasse nella idolatria.
Sono caratteri questi che resero la religione d'Israele radicalmente diversa da quelle di tutti gli altri popoli dell'antichità, e che sopravvissero anche al lungo contatto col mondo pagano.
Anche sotto il dominio politico delle dinastie elleniste dei Tolomei, prima, e dei Seleucidi, dopo, che introdussero in Palestina usi, costumi e divinità pagane, molti israeliti rimasero saldi nella fede in un solo Dio. E quando il re Antioco IV intraprese una lotta a fondo contro la religione d'Israele, la reazione non si fece attendere: si scatenò la rivolta armata dei Maccabei (167 a.C.) che pose fine alla sovranità ellenista (141 a.C.).
È significativo il fatto che sotto l'imperio di Roma sia stato concesso ai giudei un certo numero di privilegi in rapporto alla loro religione. Per rispetto al riposo del sabato, furono esodal servizio militare, così come furono esentati dal dovere di comparire in tribunale in quel giorno. Per rispetto al divieto di usare immagini di esseri viventi, il presidio militare di Gerusalemme non portava le insegne con il ritratto dell'imperatore. E quando Pilato, all'inizio del suo governo, volle sopprimere questo privilegio, una folta delegazione di cittadini lo scongiurò di non farlo, dichiarandosi disposta a morire piuttosto che subire un simile oltraggio. E Pilato dovette cedere.
Questo era il clima spirituale della Palestina ai tempi di Gesù. In questo ambiente, come poté nascere e affermarsi l'idea che Gesù fosse Dio? Appellarsi alla divinizzazione dei sovrani ellenisti o degli imperatori romani è una mistificazione storica. La mentalità religiosa d'Israele era l'opposto di quella greco-romana, tanto che Tacito poteva affermare: « Empio è colà quanto presso di noi è sacro, permesso quanto per noi è illecito »
D'altronde, mai nella storia si era verificato che un ebreo avesse adorato un altro ebreo. Né ad Abramo, il padre del popolo eletto; né a Mosè, il liberatore e legislatore; né a Davide, il re guerriero, o a Salomone, il re saggio, toccò in sorte di divenire dèi. Che anzi la Bibbia non tralascia di evidenziarne le debolezze. Perché mai, allora, avrebbe dovuto esser divinizzato un oscuro falegname di Nazaret finito sul patibolo?
La seconda osservazione riguarda il tempo, davvero breve, intercorso tra la morte infamante di Gesù e la sua esaltazione a Figlio di Dio.
Abbiamo visto che il Vangelo di Giovanni è stato scritto verso il 100, ossia a settant'anni dalla morte di Gesù. Settant'anni non sono molti per trasformare un profeta fallito in una divinità, se per divinizzare un principe indiano morto in concetto di santità, come il Buddha, ne sono occorsi quasi cinquecento . Per questo motivo, i sostenitori della divinizzazione di Gesù tendevano un tempo a spostare la redazione del quarto Vangelo alla metà del secondo secolo, ed anche oltre. Ma la scoperta del papiro di Rylands ha fatto crollare questa ipotesi.
Ma c'è di più. La divinizzazione di Gesù non ha richiesto neppure settant'anni. Prima ancora che i Vangeli fossero scritti, la Chiesa proclamava Gesù Figlio di Dio. Ce l'attestano le Letteret di san Paolo, la prima delle quali, scritta ai Tessalonicesi nell'inverno tra il 50 e il 51, ossia a vent'anni dalla morte di Gesù, ne parla già come del Figlio di Dio. Né si tratta di un caso isolato, ma di un'idea centrale della predicazione paolina. La ritroviamo infatti nella prima  e nella seconda Lettera ai Corinzi, che sono del 57, nella Lettera ai Galati, che è dello stesso anno, in quella ai Romani, che è dell'anno seguente, e negli scritti successivi.
Ma che cosa significa « Figlio di Dio » per san Paolo? Significa che Gesù è « di natura divina » (Fil 2,6), è l'« immagine del Dio invisibile », per mezzo del quale « sono state create tutte le cose » (Col 1,15-16; cf 1 Cor 8,6); che egli è il « nostro grande Dio e salvatore » (Tt 2,13), « che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli » (Rm 9,5).
Assai prima che fossero scritti i Vangeli, dunque, a 20-25 anni dalla morte di Gesù, la Chiesa lo annunciava già come Messia, Salvatore e Figlio di Dio. Come avrebbe potuto nascere e imporsi un'idea così estranea alla mentalità dei discepoli, e in un tempo così breve, se Gesù stesso non avesse detto nulla al riguardo? Da ultimo, bisogna chiedersi chi può aver formulato per primo l'idea della divinità di Gesù, dato che i responsabili della Chiesa erano tutti palestinesi pii e osservanti. La personalità più forte tra loro era quella di Paolo, che però era stato un « fariseo figlio di farisei » (At 23,6), « formato alla scuola di Gamaliele — celebre maestro di teologia di Gerusalemme — nelle più rigide norme della legge » (At 22,3) e della dottrina giudaica.
Inoltre, resta da spiegare come mai un'idea così inconsueta e ripugnante abbia potuto pacificamente affermarsi in tutta la Chiesa. Sappiamo infatti che tra i primi cristiani non mancavano divisioni (1 Cor 1,11-12), divergenze d'idee e anche forti tensioni, ma nessun contrasto s'incontra sul fatto che Gesù sia il Figlio di Dio. Questa appare come una verità pacificamente ammessa da tutti. Eppure tale pretesa rendeva ancor più arduo l'annuncio del Vangelo, ed è una circostanza che non va trascurata. Era già difficile annunciare un Messia religioso e non politico, un Salvatore di tutti e non dei soli giudei, senza aggiungere la pretesa assurda e irriverente ch'egli fosse anche divino.
L'insieme di queste considerazioni ci porta a concludere: « Supporre che in un ambiente ebraico un uomo abbia potuto essere scambiato per Jahvè e come tale adorato, e per giunta non al termine di una lunga serie di generazioni, ma... pochi anni dopo la sua morte infamante, significa non conoscere davvero nulla di un giudeo »
Se l'ipotesi che Gesù sia stato divinizzato dai discepoli ci appare insostenibile, resta il fatto che nei primi tre Vangeli non si parla molto della sua divinità. Come mai questo silenzio? E, prima ancora, è possibile sapere che cosa ha detto e pensato Gesù di se stesso?
A questo scopo dovremo interrogare i Vangeli sinottici e lo faremo su due punti fondamentali: l'uso che Gesù fa dei titoli messianici e il suo modo di agire.

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