Credere12 - Il Mondo di Aquila e Priscilla

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LA FEDE IN GESU' CRISTO
LA REALTA' STORICA DI GESU'
Storicità dei Vangeli
Autenticità


Matteo

La più antica testimonianza dell'autenticità di Matteo ci è offerta da PAPIA, vescovo di Gerapoli in Frigia, che verso il 120 dopo Cristo scrisse un'opera intitolata Spiegazione delle sentenze del Signore. Tale opera è andata perduta, ma ne rimangono delle ampie citazioni nella Storia Ecclesiastica di Eusebio, vescovo di Cesarea, scritta nel 303.
Apprendiamo da Eusebio che Papia era un uomo fedele alla tradizione, preoccupato di raccogliere tutte le possibili testimonianze sulla prima generazione cristiana dalla bocca di coloro che erano stati a diretto contatto con gli apostoli. Non amante dei « novatori di idee peregrine », egli era « persuaso che il profitto tratto dalla lettura non poteva stare a confronto con quello che otteneva dalla parola viva e sonante » [1] . Si tratta quindi di un prezioso testimone della tradizione apostolica.
Ora, Papia afferma di aver appreso dal « presbitero » Giovanni che « Matteo raccolse le sentenze [di Gesù] in lingua ebraica » [2] .
Non tutti concordano nell'identificare questo presbitero Giovanni. Alcuni, seguendo la testimonianza di Ireneo , ritengono che sia l'apostolo Giovanni; altri, fondandosi su Eusebio, per il quale Papia non avrebbe « udito e veduto i Santi Apostoli » [1] , pensano che si tratti di un discepolo della seconda generazione cristiana. Comunque stiano le cose, Papia riferisce una testimonianza antichissima, risalente ad un apostolo o ad un suo discepolo. Non dobbiamo infatti dimenticare che egli appartiene alla terza generazione cristiana. Un secondo testimone dell'autenticità del Vangelo di Matteo è sant'Ireneo, vescovo di Lione. Oriundo dell'Asia Minore, egli era stato da giovane discepolo di san Policarpo, che a sua volta era stato discepolo dell'apostolo Giovanni. Ireneo aveva prestato attenzione alle parole di Policarpo, conservandole non solo « nella memoria... ma nell'intimo del cuore », e ripensandole « assiduamente e amorosamente » [3] . Questo informato testimone dell'età apostolica nel suo libro Contro le eresie, scritto verso il 180, afferma che « Matteo, che stava tra gli Ebrei, pubblicò il Vangelo in ebraico » [4]. Alle attestazioni di Papia e di Ireneo, seguono poi quelle di Clemente alessandrino (t 215), di Tertulliano (t dopo il 220), di Origene (t 254) e di molti altri scrittori cristiani posteriori. Vi è dunque nella Chiesa l'antichissima convinzione, risalente all'età apostolica, che Matteo sia l'autore di un Vangelo scritto in ebraico.
A queste attestazioni esterne, fanno riscontro i caratteri interni del primo Vangelo.
Esso è anzitutto un Vangelo palestinese, scritto in ambiente ebraico per ebrei. Lo attesta la presenza di un gran numero di citazioni dell'Antico Testamento, vòlte a provare che Gesù è il Messia preannunciato dai profeti, argomento questo che poteva interessare soprattutto ai cristiani di origine ebraica.
Un altro tratto caratteristico di Matteo è la sua avversione agli scribi e farisei, ossia a quei giudei che più si opposero a Gesù, e che dovevano perciò apparire particolarmente riprovevoli a un ebreo convertito.
Lo stesso modo di parlare è palestinese, e le parole pronunciate da Gesù hanno un sapore tipicamente locale. Per Matteo, ad esempio, Gesù annuncia il « regno dei cieli », laddove gli alevangelisti hanno « regno di Dio ». Con ogni probabilità Gesù usò di fatto l'espressione « regno dei cieli », seguendo l'uso ebraico di non pronunciare il nome di Dio. Matteo, che scrive per ebrei, conserva alla lettera tale espressione, mentre gli altri evangelisti la sostituiscono con quella più chiara di « regno di Dio ».
Nel discorso della montagna, poi, riferito da Matteo, Gesù contrappone i suoi discepoli ai « pagani » (Mt 5,47), mentre in Luca, che scrive per cristiani provenienti dal paganesimo, essi sono contrapposti ai « peccatori » (Le 6,33). Così, nel discorso escatologico, Matteo dice che i non cristiani saranno odiati « da tutti i pagani » (Mt 24,9), mentre Luca dice semplicemente « da tutti » (Le 21,17).
Matteo infine non dà spiegazioni su nomi, luoghi e costumi palestinesi, come fanno invece gli altri evangelisti, perché li suppone noti ai lettori.Che questo Vangelo non sia solo palestinese, ma anche dell'apostolo Matteo, si può arguire dal modo con cui è narrata la sua vocazione. Matteo parla di sé come di un « pubblicano », professione allora universalmente odiata , e questo sia nel descrivere la sua chiamata all'apostolato (Mt 9,9), che nel dare l'elenco dei Dodici (Mt 10,3). Gli altri evangelisti invece, per motivi di riguardo, omettono l'appellativo di pubblicano nella lista dei Dodici (Mc 3,16-19 e par.), e nel descrivere la vocazione dell'apostolo, lo chiamano Levi, usando quello che con ogni probabilità era il suo secondo nome (Mc 2,13-14 e par.).
Vi sono dunque fondati motivi per ritenere che il primo Vangelo sia stato scritto da Matteo, già pubblicano e poi apostolo, testimone oculare della vita di Gesù.


Marco

Anche per l'autenticità del Vangelo di Marco, la più antica testimonianza è quella di PAPIA. Nello stesso contesto in cui parla di Matteo, egli riferisce che, secondo il presbitero Giovanni, il secondo Vangelo è dovuto a Marco, « interprete di Pietro », che « non aveva udito e seguito il Signore », ma aveva aiutato Pietro nel suo apostolato  . Vi è poi la testimonianza di IRENEO il quale, sempre nel Contro le eresie, afferma che « Marco, discepolo ed interprete di Pietro, pose in scritto ciò che Pietro aveva insegnato »  . CLEMENTE ALESSANDRINO, nel suo commento alla Scrittura intitolato Ipotiposi, aggiunge che il Vangelo di Marco fu scritto a Roma, durante la permanenza di Pietro in quella città [5] . Inutile aggiungere testimonianze posteriori a conferma di queste più antiche. E' interessante piuttosto costatare come i caratteri interni del Vangelo di Marco corrispondono a quanto ci dice la tradizione. Anzitutto esso è scritto per un pubblico di provenienza pagana. Marco, a differenza di Matteo, ha solo due o tre accenni alle profezie dell'Antico Testamento. Inoltre, le poche volte che riporta alla lettera qualche parola di Gesù in lingua semitica, si affretta sempre a darne la traduzione. Così, talità kum significa « fanciulla alzati » (Mc 5,41), korbàn, « offerta sacra » (Mc 7,11), effatà, « apriti » (Mc 7,34) e Abbà, « Padre » (Mc 14,36). Ugualmente, i nomi di festività giudaiche come la Parascève (Mc 15,42), e le usanze religiose palestinesi, come l'abluzione prima dei pasti (Mc 7,3-4) o la celebrazione pasquale (Mc 14,12), vengono puntualmente spiegate ai lettori. Il Vangelo di Marco rivela anche l'influsso di un ambiente latino. La sua lingua risente del vocabolario latino, e in più di un caso egli usa dei termini che sono latino grecizzato. Così kenturion per centurione (Mc 15,39), specoulatora per guardia (Mc 6,27), xestes per stoviglia (Mc 7,4). Altre volte poi vi sono delle precisazioni che hanno senso solo in un ambiente romano. Così, si dice che i due spiccioli (leptà), offerti dalla vedova al tempio, equivalgono ad un quadrante (Mc 12,42), che è una moneta romana, e che Gesù fu schernito dai soldati « dentro il cortile, cioè nel pretorio » (Mc 15,16), dove il termine militare romano di pretorio sta a specificare quello greco di cortile.
Che il Vangelo di Marco dipenda dalla predicazione di Pietro appare anzitutto dal suo stile concreto e ricco di particolari, che rivela la dipendenza da un testimone oculare. Marco infatti ricorda spesso dettagli privi d'importanza che gli altri evangelisti non hanno. Così, precisa che gli uomini che portavano il paralitico di Cafarnao erano « quattro » (Mc 2,3) e che « scoperchiarono » il tetto per calare il malato ai piedi del Signore (Mc 2,4); che Gesù, durante la tempesta sul lago, era seduto « a poppa sul cuscino » (Mc 4,38); che il cieco guarito a Betsaida se ne uscì con la strana frase: « Vedo gli uomini, poiché vedo come degli alberi che camminano » (Mc 8,24); ecc. Che poi questo testimone oculare sia Pietro lo si può arguire dal fatto che Marco omette tutti quegli episodi che possono essere motivo di vanto per il principe degli apostoli, come l'aver camminato sulle acque con Gesù (Mt 14,28-29); l'aver pescato, su ordine del Maestro, un pesce con una moneta in bocca (Mt 17,27), e l'aver ricevuto un'autorità particolare sugli apostoli e su tutta la Chiesa (Mt 16,18-19; Gv 21,15-17). Vengono invece ricordate senza falsi pudori le sue debolezze, come la ripugnanza ad accettare la croce (Mc 8,31-33), l'incapacità di vegliare col Maestro nel Getsèmani (Mc 14,37), e soprattutto il triplice rinnegamento durante la passione (Mc 14, 68-72). Tutto ciò si spiega molto bene se si ammette che Marco riferisce la predicazione di Pietro il quale, per motivi di riserbo e di umiltà, amava tacere ciò di cui avrebbe potuto vantarsi, e sottolineare invece le proprie debolezze.
Possiamo dunque concludere che il secondo Vangelo è stato scritto da Marco il quale, tra l'altro, è un personaggio di secondo piano, cui nessuno avrebbe pensato di attribuire falsamente un Vangelo per ottenerne lustro. Non è infatti un apostolo, ma un discepolo della seconda generazione cristiana, un semplice collaboratore, prima di Paolo (At 12,25; 13,5; Col 4,10) e poi di Pietro (1 Pt 5,
13).


Luca

La più antica testimonianza sull'autenticità del terzo Vangelo ci è data dal cosiddetto FRAMMENTO MURATORIANO. Esso prende nome dal sacerdote Ludovico Antonio Muratori, il famoso erudito che nel 1740 lo scoprì nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, e fa parte di un antico canone, ossia di un catalogo dei libri sacri, composto dalla Chiesa di Roma verso il 180. In esso si legge che « Luca, medico, dopo l'ascensione di Cristo, scrisse il Vangelo che ha lui per autore, valendosi di quanto aveva sentito dire quando era con Paolo »  .
Seguono quindi la testimonianza di IRENEO, per il quale « Luca, compagno di Paolo, redasse a sua volta il Vangelo da questi predicato » , e quella di CLEMENTE ALESSANDRINO che afferma: « Che ciò sia vero [la nascita di Gesù al tempo di Augusto] è scritto nel Vangelo secondo Luca: "Nell'anno decimoquinto dell'impero di Tiberio Cesare, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria" ». Ulteriori affermazioni in questo senso in Tertulliano, Origene, Eusebio, ecc.
Sebbene le attestazioni della tradizione non siano così antiche come per Matteo e Marco, l'autenticità del Vangelo di Luca è la meno discussa per i numerosi argomenti interni a suo favore.
C'è anzitutto il fatto che Luca è sicuramente l'autore di un altro libro del Nuovo Testamento: gli Atti degli Apostoli. Questa certezza, oltre che da molte testimonianze della tradizione, nasce dalla circostanza che il libro degli Atti contiene lunghi passi nei quali il racconto è condotto in prima persona, detti « sezioni noi », che rivelano la partecipazione ai fatti dell'autore. Poiché in tali sezioni si narrano i viaggi apostolici di Paolo, devono essere attribuite ad un compagno di viaggio e collaboratore dell'Apostolo. Ma dato che lo stile e il linguaggio di queste sezioni è identico a quello del resto del libro, tutta l'opera dev'essere di un discepolo di Paolo.
Ora, tra i più fedeli collaboratori di Paolo, solo Luca fu in grado di scriverlo. Non fu Timòteo, perché questi accompagnò l'Apostolo da Corinto a Troade nel suo terzo viaggio missionario, mentre l'autore degli Atti li raggiunse successivamente via mare (At 20,4-6); non furono neppure Tito e Sila, assenti da Roma al tempo della prima prigionia di Paolo (Fm 23), mentre era presente l'autore degli Atti (At 28,14ss). Non resta dunque che Luca, il « caro medico » (Col 4,14), che fu quasi sempre a fianco dell'Apostolo, dal tempo del suo secondo viaggio missionario fino alla vigilia del martirio (2 Tm 4,11). Egli inoltre non è mai nominato negli Atti, e ciò fa pensare che ne sia l'autore. Questo silenzio su di uno dei più importanti collaboratori di Paolo si spiega solo nel caso che Luca sia l'autore del libro, e che taccia di sé per motivi di umiltà.
Se Luca ha scritto gli Atti, ha scritto anche il terzo Vangelo. Anzitutto perché ambedue i libri, caso unico nel Nuovo Testamento, iniziano con un prologo e sono dedicati allo stesso personaggio, l'« illustre Teòfilo ». Nel prologo degli Atti, poi, l'autore ricorda un « primo libro » nel quale ha narrato « tutto quello che Gesù fece e insegnò » (At 1,1), libro che dev'essere il nostro terzo Vangelo per la somiglianza di stile e di linguaggio esistente tra loro.
A ciò si aggiunga che l'autore del terzo Vangelo è un discedi Paolo. I critici concordano nel trovarvi delle somiglianze con gli scritti dell'Apostolo, sia per quanto riguarda lo stile, che per quanto riguarda il contenuto. Il terzo Vangelo sottolinea infatti l'universalità della salvezza, destinata a tutti e non ai soli giudei, ricorda volentieri ciò che torna ad onore dei samaritani e degli stranieri (Lc 10,29ss; 17,16-18), mentre omette ciò che potrebbe suonare per loro come disprezzo o condanna . Nel racconto dell'ultima cena si accosta a Paolo (Lc 22,19-20; cf 1 Cor 11,23-25) e si discosta da Marco e Matteo, mentre è il solo, oltre a Paolo, a ricordare l'apparizione di Cristo risorto a Pietro (Lc 24,34; cf 1 Cor 15,5).
Infine alcuni indizi fanno ritenere che l'autore di questo Vangelo fosse medico. E' l'unico infatti a riferire che Gesù sudò sangue nell'orto degli ulivi (Lc 22,44) e che fu chiamato « medico » dai suoi concittadini in segno di sfida (Lc 4,23), mentre in realtà « da lui usciva una forza che sanava tutti » (Lc 6,19). Egli evita infine di dare il severo giudizio di Marco (Mc 5,2526) sull'operato dei medici nei confronti dell'emorroissa (Lc 8,43).
L'insieme di queste considerazioni, unite al fatto che Luca, come Marco, non è un personaggio di primo piano nella Chiesa primitiva cui convenisse attribuire falsamente un Vangelo, ci danno la certezza che il terzo Vangelo è stato scritto da Luca, proprio come vuole la tradizione e com'è comunemente ammesso dalla critica.


Giovanni

L'ultimo Vangelo è attribuito dalla tradizione all'apostolo Giovanni. La più antica testimonianza in proposito ci viene ancora da PAPIA, ed è riferita da un antico prologo (prefazione al Vangelo) latino della fine del secondo secolo. Segue quindi IRENEO, con la precisazione che Giovanni scrisse il suo Vangelo ad Efeso  . Per il particolare valore di questa testimonianza si ricordi che Ireneo fu alla scuola di Policarpo, che a sua volta era stato discepolo di Giovanni
Vi è poi il FRAMMENTO MURATORIANO, per il quale « il quarto Vangelo è di Giovanni, uno dei discepoli » [6] , e CLEMENTE ALESSANDRINO, che dice: « Ultimo poi Giovanni... compose un Vangelo [veramente] spirituale » [5]. Seguono in ordine di tempo le testimonianze di Tertulliano, di Origene e di molti altri autori posteriori.
I caratteri interni del libro confermano queste attestazioni. Innanzi tutto è un libro scritto da un palestinese perché la lingua, pur essendo il greco, lascia trasparire il semitico, sia nel'uso dei vocaboli che nella costruzione e nello stile. Vi troviamo, come in Marco, alcune parole aramaiche, subito tradotte per i lettori greci, come rabbì (Gv 1,38) e rabbunì (Gv 20,16), che significano maestro; Messia (Gv 1,41), equivalente ebraico di Cristo; Cefa (Gv 1,42), che vuol dire Pietro; Sìloe( Gv 9,7), che significa Inviato, ecc. Anche la costruzione delle frasi, che è semplice e povera, tradisce un gusto letterario semita, alieno all'uso delle subordinate e amante invece del « parallelismo », ossia della ripetizione dei concetti in frasi concatenate tra loro.
In secondo luogo, si tratta di un testimone oculare per le peculiarità che si trovano solo in questo Vangelo e che non si spiegherebbero altrimenti. Vi s'incontrano anzitutto certi particolari cronologici totalmente originali, a cominciare dalla durata della vita pubblica di Gesù, che per i sinottici è di un solo anno, mentre per Giovanni di due anni abbondanti. Ora, poiché il nostro Vangelo fu scritto per ultimo e da persona che verosimilmente conosceva i sinottici, solo un'esperienza diretta dei fatti può aver indotto l'autore a prendersi la libertà di contraddire una tradizione già accolta da tutta la Chiesa. Giovanni inoltre si premura di dirci che Gesù iniziò la sua predicazione quando il Battista era ancora libero (Gv 3,23), e non in prigione come appare dai sinottici (Mc 1,14 e par.); specifica quale fu il primo miracolo di Gesù (Gv 2,11) e situa all'inizio, e non alla fine della vita pubblica, la cacciata dei venditori dal Tempio (Gv 2,14-16). Aggiunge anche che essa avvenne a 46 anni dall'avvio della sua costruzione (Gv 2,20), ossia intorno alla Pasqua del 28 della nostra era.
Oltre alle precisazioni di tempo, il quarto Vangelo ha molte precisazioni di luogo che gli sono proprie ed esclusive. Vi si dice infatti dove Giovanni Battista era solito battezzare, ossia a Betania al di là del Giordano (Gv 1,28) e ad Ennòn presso Salìm (Gv 3,23); si afferma l'esistenza, presso la porta delle Pecore di Gerusalemme, di una piscina chiamata Betzaetà (Gv 5,2); si dà la distanza tra Betania e Gerusalemme, che è di circa quindici stadi (Gv 11,18), pari a due miglia; si riferisce il nome greco ed ebraico del cortile ove Pilato sedette in giudizio contro Gesù (Gv 19,13), mentre si precisa che il Calvario era vicino alla città (Gv 19,17-20), ecc. Né mancano dettagli di altro genere. Si dice, ad esempio, che il discepolo che colpì di spada il servo del sommo sacerdote nel Getsèmani era Pietro, e che il servo si chiamava Malco (Gv 18,10); si ricorda l'incontro di Gesù con Anna (Gv 18,13) prima del processo ufficiale davanti a Caifa, omesso dai sinottici; si precisa che i soldati, dopo la morte di Gesù, non gli spezzarono le gambe, ma che uno di essi gli colpì il fianco con un colpo di lancia (Gv 19,31-34). Tutti particolari che rivelano nell'autore un testimone oculare, perché sono per lo più accidentali, non necessari alla comprensione dei fatti, e non si spiegano se non come ricordi personali dell'evangelista. Testimone oculare di ciò che racconta, l'autore del quarto Vangelo è l'apostolo Giovanni. Al termine del libro si legge infatti: « Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti » (Gv 21,24), discepolo che viene designato poco prima come quel « discepolo che Gesù amava » (Gv 21,30) e di cui, a partire dall'ultima cena, si fa spesso menzione. È quello che durante la cena si era chinato sul petto del Maestro (Gv 13,25), che era salito con Maria ai piedi della croce (Gv 19,26) e che per primo vide il sepolcro vuoto (Gv 20,5).
Ora, noi sappiamo dai sinottici che Gesù aveva una particolare predilezione per tre degli apostoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. Sono i soli ammessi a presenziare alla risurrezione della figlia di Giàiro (Mc 5,37ss e par.), alla trasfigurazione (Mc 9,2 e par.), e all'agonia nel Getsèmani (Mc 14,33 e par.). Il « discepolo che Gesù amava » dev'essere tra questi tre, ma non può essere Pietro, spesso da lui chiaramente distinto (Gv 13,23-24; 18,15; 20,2), né Giacomo, ucciso da Erode Agrippa I tra il 41 e il 44 (At 12,2), quando nessun Vangelo era ancora stato scritto. Non resta dunque che l'apostolo Giovanni. Ne è conferma sia il fatto che il « discepolo che Gesù amava » appare legato da particolare amicizia con Pietro (Gv 13, 24-26; 18,15-16; 20,2ss), proprio come Giovanni, che era compaesano di Pietro e che troviamo spesso associato a lui nel ministero apostolico (At 3,1ss; 8,14), sia il fatto che in tutto questo Vangelo non si fa mai il nome di Giovanni, che pure altrove appare come figura di primo piano, e che Paolo definisce una « colonna » della Chiesa (Gal 2,9). La spiegazione di questo silenzio non può essere che il senso di riserbo e di cristiana modestia dell'apostolo. Esistono dunque fondati argomenti a favore dell'autenticità del Vangelo di Giovanni, almeno quanto alla sua sostanza. Alcuni critici ritengono infatti che la redazione definitiva di questo Vangelo, quale l'abbiamo noi oggi, non sia dovuta alla mano di Giovanni, ma a quella di qualche suo discepolo, e che risalga al periodo immediatamente successivo alla sua morte. Ma tale ipotesi non toglie in alcun modo la dipendenza di questo Vangelo dalla personalità di Giovanni, così come non ne infirma il valore storico. Se i Vangeli sono autentici, ne consegue che i loro autori furono ben informati sulla vita e la predicazione di Gesù. Due di essi, Matteo e Giovanni, furono apostoli, e quindi testimoni oculari dei fatti; gli altri due furono diretti discepoli degli apostoli, ossia uomini che poterono godere di una lunga dimestichezza con loro, attingendo così le notizie che ci hanno trasmesso.
Che poi una notizia ci venga da un apostolo o da un suo immediato collaboratore, non fa in fondo molta differenza. Per questo motivo anche l'opinione secondo cui la traduzione greca di Matteo sarebbe un rimaneggiamento del testo originario semitico (ebraico o aramaico) compiuto dalla prima comunità cristiana , e la redazione finale di Giovanni sarebbe opera di un discepolo, non infirma il fatto che i Vangeli sono stati scritti da uomini ben informati, molto vicini agli avvenimenti che narrano, di cui possono essere quindi testimoni credibili.


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